MAURO UBERTI

ASCOLTARSI CON LE DITA

L'articolo che segue fu scritto nel 1955 per la rubrica "Fisiologia ed ergonomia della voce" della rivista "Voce e canto" come seguito di quello intitolato "La laringe non è nata per cantare" e sarebbe dovuto apparire sul n. 2 (verosimilmente nel bimestre luglio-agosto di quell'anno).
In realtà la pubblicazione cessò dopo il primo numero e l'articolo - magari opportunamente modificato - diventerà il capitolo di un libro sulla tecnica vocale di base, in corso di elaborazione.
Vista la fine del primo, un terzo capitolo, intitolato "Tutti i muscoli della voce", è rimasto incompiuto. Anch'esso, ovviamente completato, costituirà un altro capitolo dello stesso libro.

Mi trovai una volta a parlare con un famoso fonetico americano del vibrato vocale e, fra un argomento e l’altro, a fargli osservare come i relativi movimenti della laringe siano palpabili attraverso la pelle del collo. Il famoso scienziato, cercando di cantare e stonando come due stonati, armeggiò un poco attorno al suo pomo d’Adamo, poi, non riuscendo a percepire nulla, sentenziò solennemente: "La voce si studia col computer" e pose fine alla conversazione. Evidentemente credeva più al computer che alle proprie dita. Forse dipende dal fatto che quel signore appartiene ad una cultura recente mentre noi abbiamo alle spalle tremila anni di civiltà, ma, almeno per quanto mi riguarda, sono convinto che le dita siano testimoni attendibilissimi e che l’impiego dei mezzi tradizionali aggiunto a quelli della tecnologia moderna consenta di andare più lontano che limitandosi a questa. Ecco perché ritengo fondamentale l’uso delle dita al fine di ricavare direttamente dal nostro corpo informazioni che con altri mezzi non si riuscirebbe ad ottenere e perché lo propongo nel corso di questo articolo.

Nell’esercizio della musica viene fatto un uso tecnico del corpo, più o meno impegnativo a seconda che gli strumenti siano in se stessi completi o prevedano il corpo come mantice. Strumenti come il pianoforte richiedono prevalentemente l’uso di organi esterni come le mani; gli strumenti a fiato coinvolgono anche gli organi interni del sistema respiratorio; il canto impegna essenzialmente organi interni (sul fatto che la voce si emetta impegnando tutto il corpo, organi esterni compresi, avremo modo di tornare altra volta). L’ovvia conseguenza è che il controllo mirato degli organi messi in movimento per fare musica è più facile quando essi sono esterni – e quindi visibili – e più difficile quando essi sono interni e quindi nascosti.

Nel caso del canto la difficoltà è massima in quanto nemmeno con i mezzi moderni di indagine medica si è ancora riusciti ad osservare il fenomeno fisiologico della fonazione nella sua globalità; del resto dovrà passare ancora un po’ di tempo prima che ciò sia possibile. E’ vero che esistono ottimi atlanti di anatomia, che consentono di farsi una buona idea degli organi del nostro corpo, ma, per esigenze di precisione, le rappresentazioni vengono date in proiezione ortogonale e in assenza di prospettiva non è semplice ricostruire con l’immaginazione figure a tre dimensioni avendo a disposizione soltanto visioni frontali, laterali, superiori o inferiori (e infatti una delle maggiori difficoltà dell’esame di anatomia è proprio questa). Nemmeno sarebbe ragionevole richiedere a chi non abbia scelto di fare il medico uno sforzo di questa entità; tuttavia se vorremo essere più consapevoli di ciò che facciamo quando cantiamo, un minimo di fatica dovremo rassegnarci a farla. Nelle intenzioni questo articolo vorrebbe essere un aiuto per ridurla al minimo possibile.

Il primo organo del quale è istintivo occuparsi nello studio della fisiologia del canto è quello specifico della fonazione: la laringe. E’ un organo piuttosto evidente, facilmente palpabile e che ha un nome anche nel linguaggio familiare: il pomo d’Adamo. Procediamo dunque alla sua identificazione.

Ci conviene incominciare dalla base del collo. Immediatamente sopra lo sterno emerge la trachea (fig. 1). E’ un tubo flessibile, costituito di anelli elastici ma di solidità sufficiente a garantirne costantemente l’apertura. Sono infatti costituiti di cartilagine, il tessuto impiegato dall’organismo ogni qual volta è necessario combinare la solidità con l’elasticità (naso e orecchie, per esempio) e sono collegati fra loro da tessuto connettivo (per intenderci: la "pellaccia" presente sovente nella bistecca è appunto tessuto connettivo). La palpazione condotta con garbo permette di prendere consapevolezza delle loro dimensioni, della forma, della consistenza e dei piccoli spostamenti reciproci che si verificano con i movimenti del capo e del collo (si provi ad alzare ed abbassare il capo come in un cenno di affermazione e si sentirà che essi s’allontanano e s’avvicinano fra loro).

Salendo, a circa un terzo della lunghezza del collo si incontra un anello più grosso e rigido degli altri, la cartilagine cricoide (figg. 1 e segg.). Il nome di questa cartilagine viene dal fatto che, quando i primi anatomici, superati i divieti ecclesiastici di dissezionare i cadaveri (violando i quali si finiva sul rogo), poterono incominciare a fare dell’anatomia sistematica, essi dovettero anche inventare un nome per ogni organo. Per quelli noti da sempre il problema non esisteva; per gli altri seguirono criteri vari. Sovente l’organo recentemente scoperto veniva paragonato ad un oggetto di uso comune: nel caso della cartilagine cricoide ad un anello (in greco "crìcos"); la cartilagine cricoide, infatti, rassomiglia grossolanamente ad un anello con castone, dove il cerchio – l’arco – è rappresentato dal corpo solido che riusciamo a percepire sotto pelle mentre il castone – la lamina – ce lo dobbiamo immaginare con l’aiuto della figura 2.

L’uso costante di termini latini e greci in anatomia deriva dal fatto che il latino è stato per secoli la lingua internazionale della cultura – ancora una quarantina d’anni fa mi accadde di leggere su una rivista zoologica un articolo in latino – mentre il greco era la lingua della riscoperta umanistica, che coincideva con il germogliare degli studi scientifici.

Superato il rilievo della cartilagine cricoide si incontra un solco più profondo di quelli fra gli anelli della trachea e, al di sopra, il corpo solido più imponente fra quelli che possiamo palpare sul nostro collo: la cartilagine tiroide (fig. 3) o, se si preferisce, il "pomo d’Adamo" di cui sopra. Anche in questo caso il nome deriva da una parola greca: "thyreos", che sta per "scudo" e proprio l’oggetto cui il nome si riferisce ci guiderà nella palpazione. Ai tempi in cui nasceva l’anatomia lo scudo era componente fondamentale delle armature militari. Gli scudi erano di vario tipo a seconda del loro impiego. Quelli della cavalleria erano piccoli per poter essere brandeggiati stando a cavallo ed un modello molto diffuso aveva forma carenata, con due spioventi destinati a deviare i colpi di lancia (fig. 4). Con la palpazione si verifica agevolmente che la cartilagine del pomo d’Adamo ha forma analoga e che i due spioventi – le lamine – sono anche più inclinati. Il primo oggetto a cui noi penseremmo di paragonarla non sarebbe certamente uno scudo, ma probabilmente in tempi in cui questo oggetto era di uso comune l’accostamento veniva spontaneo.

Con i soliti movimenti di innalzamento e abbassamento del capo il solco fra le due cartilagini varia di profondità e quindi possiamo verificare che, così come appare dalle figure, la cartilagine tiroide è articolata sulla cartilagine cricoide.

Proseguendo nell’esplorazione della cartilagine tiroide riusciamo pure ad avvertire che, nella parte superiore, le due lamine convergono lasciando una incisura, poi, sempre guidandoci con le figure e seguendone i margini con garbo per non farci male, riusciamo ad intuire, più che a percepire, che essa continua superiormente e inferiormente con due prolungamenti: i corni superiori e i corni inferiori. Questi ultimi costituiscono i cardini per mezzo dei quali la cartilagine tiroide si articola con la cartilagine cricoide. L’andamento dei corni superiori si intuisce meglio tenendo conto del fatto che essi si collegano superiormente all’osso ioide, il corpo a ferro di cavallo (figg. 1 e 5), consistente e piuttosto dolente alla pressione, che fa da confine fra il collo e il pavimento della bocca. I primi anatomici ci avevano visto piuttosto una rassomiglianza con la lettera "u" e siccome questa vocale, che in greco si legge come la "ü" francese, quando passa nelle parole latine diventa una "y", il nome che gli venne dato fu appunto quello di "osso ioide".

Nell’esame dei fenomeni fonatori quest’osso viene puntualmente dimenticato. A torto perché le tecniche vocali si differenziano fra loro in gran parte per le manovre fatte a suo carico. Esso è il sostegno rigido che fa da collegamento fra la laringe e il cranio ed al quale è letteralmente appeso tutto l’apparato respiratorio. Come appare dalla figura 1 al corpo dell’osso si inseriscono i muscoli del pavimento della bocca – che più lontano avremo modo di vedere in azione – mentre dai due rami ascendenti della lettera "u" – i corni maggiori – si distaccano i due corni minori i quali costituiscono l’attacco dei muscoli che lo collegano direttamente al cranio. Per avere un’idea dell’importanza di queste due protuberanze ossee si pensi che, sulla base della loro posizione, ricavata da altri dati anatomici, è stato possibile ricostruire l’abilità fonetica dell’Uomo di Neanderthal.

Sui muscoli che uniscono l’osso ioide al cranio torneremo meglio un’altra volta ancora (e mi si scusi se continuo a fare rimandi); per ora ci limiteremo ad osservare sulla figura 1 che alcuni di essi sono veri e propri tiranti che, sia pure con geometria diversa, hanno il compito di sollevarlo con tutto ciò che vi sta appeso. Anche di questo fatto possiamo fare esperienza nelle nostre esplorazioni tattili. Palpando ciò che accade durante la deglutizione si scopre che la laringe risale; se però si bada in modo particolare all’osso ioide si avverte che esso si infossa in un solco fra collo e mandibola mentre, sempre con l’aiuto della figura 1, riusciamo almeno ad intuire che ciò è avvenuto per la contrazione dei muscoli citati.

Più istruttivo ancora per le considerazioni future è osservare le differenze di consistenza e di comportamento dell’insieme dei due organi in postura eretta e in postura supina. Se si esplora con attenzione lo spazio fra cartilagine tiroide ed osso ioide si scopre che la situazione è diversa a seconda che lo si faccia in piedi o coricati. Nel primo caso si ha l’impressione che i due organi costituiscano un tutto unico; nel secondo i loro rapporti sono alquanto liberi. La differenza è data dalle caratteristiche del collegamento. Come appare dalla figura 6 essi sono uniti per tutta la lunghezza dei margini contrapposti da una membrana tiro-ioidea; inoltre i corni superiori della cartilagine tiroide e gli estremi dei corni posteriori dell’osso ioide sono collegati da due consistenti legamenti tiro-ioidei (che però non riusciamo a palpare perché affondati nel collo). In postura eretta la membrana tiro-ioidea appare rigida perché sottoposta a tensione dal peso di polmoni e trachea (che ad ogni respirazione fanno escursioni verticali in equilibrio instabile fra la sospensione al cranio e l’appoggio sul diaframma); in postura supina l’apparato respiratorio riposa sulla parete dorsale del corpo, la tensione della membrana tiro-ioidea viene a mancare e la libertà di spostamento fra cartilagine tiroide ed osso ioide si fa maggiore.

E adesso occupiamoci un momento delle corde vocali. Sulle corde vocali accade di sentire di tutto: c’è chi, dato il nome, crede che si tratti proprio di corde simili a quelle degli strumenti musicali; c’è chi crede addirittura che siano disposte verticalmente lungo l’asse del collo; per non parlare poi delle opinioni sulle loro dimensioni, sul funzionamento e su altre cose ancora. Effettivamente il nome può trarre in inganno e far immaginare cose più o meno strane. Esso si deve al medico francese Antoine Ferrein (1693-1769) il quale, sperimentando su laringi di animali, riuscì a vedere le pieghe vocali in vibrazione e a verificare che, stirandole e rilasciandole mentre si soffiava nella trachea, si ottenevano suoni di altezza diversa. Tratto in inganno proprio da questo fatto ritenne verosimile compararne il funzionamento con quello delle corde della viola da gamba e pensò che esse entrassero in vibrazione per effetto dell’aria che le sfiorava a mo’ di archetto mentre il petto e i polmoni avrebbero svolto le funzioni della mano che faceva muovere l’archetto stesso. Fu così che le "pieghe vocali" – o "nastri", o "labbri " – divennero e rimasero "corde vocali" con tutti gli equivoci che ancora oggi ne derivano.

Se invece ci mettiamo semplicemente sotto sforzo per sollevare un peso (non è necessario sollevare il pianoforte: a seconda della sensibilità individuale prendere da terra la borsa della spesa può essere sufficiente), noi chiudiamo istintivamente la gola (cfr. La laringe non è nata per cantare in "Voce e canto" n. 1). A questo punto, ponendo attenzione alle sensibilità interne possiamo percepire una più o meno intensa sensazione di contatto all’altezza della laringe: sono le corde vocali che si sono avvicinate per chiudere il mantice respiratorio. Sempre in questa situazione si osservi che la sensazione è quella di una striscia di contatto lunga e stretta come quella che si percepisce serrando le labbra e che va orizzontalmente dall’avanti all’indietro. Abbiamo cioè un’immagine tattile, sia pure approssimata, delle corde vocali.

Altro aspetto importante di questa sensazione è che, con un poco di attenzione, è possibile individuarne gli estremi anteriore e posteriore, i quali corrispondono alle inserzioni delle corde vocali sulle cartilagini della laringe. Quella anteriore si trova sulle facce interne delle due lamine della cartilagine tiroide, dove queste si uniscono a formare un diedro; quella posteriore, sulla verticale del castone della cartilagine cricoide. Ho detto "sulla verticale" perché sul castone sono collocate le due cartilagini aritenoidi (fig. 7), che hanno il duplice compito di dare attacco alle corde vocali (figg. 8 e 9) e di determinarne i movimenti di chiusura ed apertura. Si tratta di due piccole cartilagini a forma di piramide triangolare molto irregolare, la cui base è incavata per potersi incernierare sulla cartilagine cricoide. Poiché rivoltandole questo incavo è piuttosto evidente, gli anatomici di cui sopra le considerarono simili a piccoli vasi – in greco "arytér" significa "vaso per attingere" – e le chiamarono così.

Non abbiamo ancora parlato dell’epiglottide, la cartilagine che nella fig. 10 emerge come una foglia dalla cartilagine tiroide, perché non viene impegnata nella produzione della voce. L’appuntamento è per una certa puntata nella quale scopriremo che l’evoluzione della voce del neonato è correlata anche con il suo cambiamento di funzione durante la crescita. Per ora ci limitiamo a constatare che l’organo della voce non è poi così inaccessibile come si dice e a intravedere la possibilità di farne un uso nel canto più consapevole e mirato di quanto di solito non avvenga.