MAURO UBERTI - OSKAR SCHINDLER
CONTRIBUTO ALLA RICERCA DI UNA VOCALITÀ MONTEVERDIANA:
IL "COLORE"
Il Convegno di Studi Monteverdiani della SIDM, svoltosi a Siena negli ultimi giorni di aprile dello scorso anno, si concludeva con l'auspicio di una fioritura di studi - ora cosi rari - sui problemi interpretativi delle musiche monteverdiane.
Se i musicologi denunciano lo scarso interesse attuale per questo genere di speculazioni, quelli dei cultori di musica vocale antica che si preoccupano del rigore critico delle interpretazioni avvertono da tempo il contrasto stridente fra la vocalità degli esecutori ed il genere delle musiche eseguite. Troppo spesso, infatti, si canta l'Orfeo con la stessa voce (e - ahimè! - anche lo stesso stile) che si usa per cantare l'Aida. Ma se gli elementi più macroscopici dei diversi stili si possono riconoscere e mettere in pratica con lo studio e la sensibilità, ben più delicato e difficile a risolversi è il problema della vocalità intesa come emissione di suono. Infatti, mentre i vocalisti dei tempi passati si limitavano praticamente all'esecuzione delle musiche dei loro contemporanei - con la conseguenza che la vocalità ed il gusto compositivo si evolvevano in condizioni di armonica reciprocità - il cantante moderno è chiamato ad eseguire opere tratte da tutto l'arco della storia musicale con una preparazione tecnica che raramente prevede la versatilità che tale pratica richiederebbe.
Con quale facilità il gusto e la tecnica dell'emissione del suono cambino nel tempo è presto constatato. È facile trovare in commercio alcune incisioni fonografiche dalle quali ci è concesso di riascoltare le voci di cantanti che eseguirono le opere di Verdi, lui vivente. È patente la differenza da quelle che oggi vengono chiamate "voci verdiane". Ora, se tanto è stato il cambiamento in così breve arco di tempo, quanto maggiore non sarà quello avvenuto in quattro secoli? Se poi, procedendo a ritroso, cerchiamo di ricostruire una storia della tecnica vocale, siamo costretti ad inferire che lo iato fra la tecnica oggi più diffusa e quella cinque-seicentesca è sicuramente maggiore di quanto la considerazione precedente indurrebbe a pensare. A partire da un momento che, per convenzione, potremmo far coincidere con l'ascesa al do di petto del Duprez, assistiamo infatti ad un distacco dalla tradizione belcantistica che, passo passo, ci porta fino ai cantanti dell'opera verista.
Il risultato di questo percorso è che oggi, abituati come siamo ad ascoltare musica in sale molto grandi, chiediamo alle voci di riempirle e di contendere in potenza con una grande orchestra sinfonica. Sovente, anzi, a dispetto della nostra preparazione musicale, confondiamo una voce sanguigna con una voce espressiva. Il guaio è che in questo modo siamo arrivati ad ottenere una schiera di "ottoni" preparati alle esigenze accennate ma affatto inadatti a reggere la parte di "archi" richiesta, per esempio, dal repertorio belcantistico.
Si è creduto di ovviare all'inconveniente avviando precocemente l'educazione delle voci all'emissione richiesta dalla lirica oppure a quella più adatta al concerto. Che i risultati raggiunti siano criticamente accettabili è molto dubbio. Mentre per quanto riguarda la lirica le considerazioni sulle vecchie registrazioni dovrebbero essere sufficienti a dimostrarlo, per quanto riguarda il repertorio concertistico tante esecuzioni di musiche sei- o settecentesche in cui voci pletoriche sommergono o, almeno, stridono a contatto con la sonorità tenue e delicata di un'orchestra da camera o di un clavicembalo,
1 se non arrivano a suggerire da sole quale sarebbe la vocalità adatta almeno fanno capire inequivocabilmente che quella praticata non è quella giusta.Nel migliori dei casi ci troviamo di fronte ad esecuzioni di tipo liederistico che, se non sono prive di buon gusto, certo non sono "nel gusto". Né vale dire, come si fa, che, trattandosi di belle voci educate, le interpretazioni sono valide e che, comunque, essendo noi uomini moderni, dobbiamo esprimerci coi mezzi a noi più congeniali. Questo significa rinunciare in partenza all'intento critico e praticare una doppia morale artistica che condanna, per esempio, l'esecuzione dell'Orfeo con strumenti moderni, ma accetta invece che lo si canti con la voce che si usa per cantare Schubert. L'audizione comparata di un brano strumentale barocco eseguito con viole antiche e con archi moderni ci dimostra che la scelta di una sonorità piuttosto di un'altra non è un fattore epidermico ai fini dell'interpretazione. Da questa considerazione scaturisce inevitabile e parallela l'esigenza artistica, prima che culturale, di una ricerca di vocalità. che contribuisca a riavvicinarci allo spirito originale, oltre che alla lettera, delle musiche.
Se almeno per quanto riguarda i timbri ed il loro uso la ricerca in campo strumentale ci dà sufficienti garanzie di rigore - data la sopravvivenza di strumenti originali e di documenti iconografici e descrittivi - non altrettanto può dirsi per quella in campo vocale i cui maestri sono muti - o, almeno, estremamente sobri - nel descriverci metodi di insegnamento e caratteristiche delle voci formate. Non ci resta quindi che ricostruire pazientemente le caratteristiche di un gusto rubando indizi alle corrispondenze private o ricavando indicazioni indirette da prefazioni e note alle musiche.
Nella ricerca di una vocalità monteverdiana ha dato un contributo notevole Rachele Maragliano Mori col suo pur breve studio: Monteverdi maestro di canto.
2 Analizzando gli accenni fuggevoli disseminati nell'epistolario3 la Maragliano è riuscita a ricavare alcune opinioni di Monteverdi sulle caratteristiche fondamentali da lui richieste alle voci dei cantanti:- a): impostazione naturale;4
- b): risonanza totale (risultato del libero collegamento delle cavità di risonanza pettorale, faringea e cefaliche);
- c): completa disponibilità del diaframma, particolarmente nell'esecuzione del "trillo", ma anche di ogni ordine di melismi.
Ognuno di questi elementi merita un discorso a sé. L'idea della "impostazione naturale" acquista significato quando questa venga messa a confronto con l'impostazione quale oggi generalmente s'intende. Impostazione che, avendo solitamente per mira il volume più che la qualità della voce, sottopone gli organi vocali ad una tensione che non è più normale
5 mentre l'estensione richiesta - oltrepassando alquanto l'ambitus naturale - richiede un'attività respiratoria, laringea e faringea fuori del comune.Che queste voci possenti e molto estese
6 non siano l'ideale di Monteverdi appare inequivocabilmente dal suoi scritti. Per quanto riguarda l'ambitus lo vediamo preoccuparsi costantemente di scrivere "su misura" alla voce dell'esecutore cui le musiche sono destinate,7 mentre per quanto riguarda la potenza lo sentiamo protestare a proposito del libretto delle Nozze di Tetide - e si noti che avrebbe dovuto trattarsi di un'opera teatrale - che lo costringerebbe a compor musica tale che "in loco d'un chitarone ce ne vorà tre", in loco di un arpa ce ne vorebbe tre et va discorendo: et in loco di una voce delicata del cantore ce ne vorebbe una sforzata.8Né l'uno né l'altro fatto hanno da apparire come una singolarità. Per quanto riguarda l'ambitus è normale che, in tempi nei quali erano le possibilità delle cappelle musicali a suggerire i limiti ai compositori,
9 tutta la vocalità ne restasse influenzata. Sappiamo che nelle cappelle le parti superiori delle polifonie venivano affidate a falsettisti ed a pueri cantores.10 Ora, l'esperienza attuale ci insegna che tanto i falsettisti che le voci bianche praticano a fatica le note superiori al Mi4.11 Esistendo dunque dei limiti invalicabili per un gruppo di voci, le altre dovevano adeguare i propri di conseguenza. D'altra parte, non essendosi ancora sviluppate le pretese esibizionistiche del canto solistico, non si ricercava una maggiore estensione vocale e tutta l'attenzione era rivolta ad affinare e rendere agili le voci nel loro ambítus naturale. Che, se poi questo fatto costituiva un limite alla libertà creativa del musicista al momento della composizione, gli si risolveva in un vantaggio in quello dell'esecuzione. Infatti il problema dell'uniformità della voce nei vari registri praticamente non esisteva perché, non richiedendosi al cantante il "passaggio" a quella che oggi chiamiamo "voce di testa", la voce poteva agevolmente "diffondersi in tutti li lochi ... senza discomodo e senza fatica" e con ogni possibilità di attuare quel tipo di interpretazione che vedremo in seguito. Per quanto riguarda invece la potenza della voce, la prospettiva si apre diversamente a seconda che si tratti di musica sacra o da camera. Limitando per ora l'esame alla seconda, possiamo osservare che già lo Zarlino diceva12 che "nelle camere si canta con voce più sommessa et soave senza fare alcun strepito" mentre, prima di lui, il Vicentino, specificando il modo di cantare "nelle chiese, oue si canterà con le uoci piene, et con moltitudine de Cantanti"13 diceva implicitamente che "nelle camere" si cantava appunto con voce più sommessa.Comunque, il secondo elemento che scaturisce dallo studio della Maragliano viene a disperdere il dubbio che potrebbe nascere, che cioè Monteverdi volesse delle voci deboli. Se è vero che il "recitar cantando" non chiede per la sua stessa natura quella maggior brillantezza ed evidenza di suono che già chiederà il "belcanto" propriamente detto
14 è certo però che pretende quella sonorità piena, data dalla ricchezza di armonici che deriva dallo "aggiungere ... la vocale del petto a quella della gozza"15 e che si può ottenere soltanto con un atteggiamento fisiologico dell'apparato di risonanza. Monteverdi non richiede dunque una voce potente nel senso che diamo noi oggi al termine - "sforzata", per dirla con lui - bensì una voce "delicata", ma dotata di quelle risonanze, che la rendano capace di "correre" e di colorirsi di volta in volta di quegli "affetti" che sono l'essenza delle sue musiche. Maggior risalto a questa visione può derivare dal fatto che l'analisi oscilloscopica dimostra come la caratteristica comune alle voci che "corrono" non sia tanto l'ampiezza delle oscillazioni, quanto una particolare ricchezza di armonici dispari; ricchezza che si forma in qualsiasi voce - sia pure se in grado a volta a volta diverso - quando si stabiliscono le condizioni fisiologiche ideali.16Un'ulteriore e significativa indicazione viene data indirettamente da quel suo richiedere l'elasticità diaframmatica necessaria all'esecuzione del "trillo". Trillo che, tutti sanno, non è l'oscillazione tra due note contigue (quest'ultimo abbellimento portava allora il nome di "gruppo"), ma la ripercussione veloce della stessa nota. Ben diverso è il valore affettivo dei due abbellimenti. Il "gruppo", almeno in Monteverdi, non va molto oltre la pura e semplice ornamentazione e tende a dare un che di galante alla melodia che viene a decorare; il "trillo", se eseguito a regola d'arte - senza di che è più simile al belato di una pecora che ad un suono umano -, viene ad esprimere di per sé l'empito dell'animo gonfio di affetti. E poiché può essere eseguito soltanto grazie alla vibrazione del diaframma ecco che viene ad essere inquadrato sia tecnicamente che psicologicamente in quello "aggiungere ... la vocale del petto a quella della gozza" che richiede appunto la libera azione del fiato e di tutti gli organi di risonanza.
Le conseguenze di queste acquisizioni sono notevoli.
Quando dà istruzioni da Venezia
17 per l'esecuzione de La finta pazza Licori, Monteverdi non lascia dubbi su ciò che intende per "recitar cantando": un'interpretazione accesa fatta di tinte vivaci e linee incisive. Ed anche questo non costituisce una novità, perché - senza uscire dai trattati musicali - già Vincenzo Galilei propone ad esempio di interpretazione la recitazione degli zanni,18 mentre lo Zarlino - che pure rigetta questa tesi sostenendo "Che queste Imitationi più tosto appartengono all'Oratore, che al musico"19 - finisce poi in pratica per ritrovarsi - salvo un limite di "proportione" e "decoro" - allineato con lui.Ciò che importa qui è l'influenza determinante di questa tecnica sul colore della voce. Non è questa la sede per un esame su basi anatomiche e fisiologiche della fonazione nel canto artistico, né, d'altronde, lo stadio attuale delle conoscenze in questo campo al confine tra l'arte e la scienza consente di azzardare spiegazioni, che potrebbero in seguito dimostrarsi inesatte.
20 Saranno sufficienti alcune osservazioni empiriche ad illuminare l'asserto.Gli organi volontari deputati alla fonazione sono cosi strettamente connessi fra di loro dal punto di vista dell'innervazione (dando a questo termine un senso molto lato, soprattutto dal punto di vista cibernetico-bionico), che nessuno di essi può ricevere un impulso motorio senza che anche gli altri ne siano influenzati. Le conseguenze di questa condizione di interdipendenza trovano la loro manifestazione nelle molteplici sonorità della voce, che sono effetto del gioco di tensione e distensione dei muscoli i quali vengono a determinare, al diversi livelli, particolari condizioni di risonanza. Queste favoriscono a volta a volta la formazione di alcuni piuttosto che di altri armonici. Analoga condizione di interdipendenza esiste nei riguardi della muscolatura mimica; e non soltanto a carico di quelli tra i muscoli che, come l'orbicolare delle labbra o gli zigomatici, partecipano attivamente alla modificazione della cavità boccale. Di quanto detto, il lettore può fare esperienza diretta continuando la lettura di queste righe ad alta voce. Se, dopo aver ascoltato il colore della sua voce, emessa a viso disteso, egli contrarrà le sopracciglia in un'espressione dolorosa, aggrotterà la fronte in una espressione severa, ecc. sentirà la sua voce farsi a volta a volta dolorosa, severa, ecc. senza che egli possa disgiungere con la volontà i due fenomeni.
Gli effetti su di una vocalità, come quella esaminata, balzano evidenti. Quell'apparato vocale, che vibrava libero e disteso nell'atteggiamento più fisiologico possibile, rifletterà ora fedelmente ogni più piccola espressione del viso. Questo tanto più nettamente quanto più chiara sarà la pronunzia della parola. E che questa sia un'altra delle qualità richieste da Monteverdi appare dal passo seguente: "canta con più gratezza di voce del Rapallini et più sicuramente perché compone alquanto et fa intendere benissimo la parola ...".
21 Ora, poiché quella recitazione di tipo scenico, richiesta esplicitamente, non poteva certo essere attuata con faccia da giocatore di poker, è logico concludere che il "colore monteverdiano" fosse sul piano di quello della voce parlata.22Indipendentemente da un'altra -indicazione monteverdiana che esamineremo in seguito, si deve aggiungere che, in queste condizioni, il timbro generale doveva essere chiaro.
23 Non è possibile infatti "far intendere benissimo la parola" con quella voce "tubata" e monocolore che si usa talvolta per queste musiche, né, di converso, è facile mantenere scura la voce spiccando bene le consonanti.24 Scomparsi i "registri" in quell'unica armonica risonanza generata da un gioco corretto del diaframma e delle cavità di risonanza, i colori propri di ogni vocale e di ogni consonante dovevano trascorrere mobili come in un caleidoscopio, rendendo vari i recitativi e dando rilievo alle singole voci nelle polifonie.25' E viene spontaneo pensare alla sonorità trasparente dell'organo italiano del tempo, che rende cosi chiaro e nitido l'intreccio delle parti.26Colore ben diverso, dunque, da quello che intendiamo oggi per la vocalità cantata alla quale chiediamo quel timbro particolare, che deriva dal tipo della nostra impostazione. Spostatosi l'interesse dalla parola alla melodia, la voce si è volta quasi interamente a sviluppare il suono, sacrificando il "recitar cantando", che si è, per cosi dire, rifugiato nel "recitativo"; naturalmente coltivato con ben diversi intenti. Le si è chiesto uguaglianza in tutti i registri e - essendosi intanto sviluppato oltre l'ambitus naturale quello "di testa", che è ottenibile solo con tecnica particolare e che non trova corrispondenza nei colori della voce naturale - ha dovuto cercare un timbro, che fosse un compromesso fra i diversi, mentre la potenza richiestale l'ha costretta ad amplificare con la tensione muscolare l'ampiezza del "vibrato". È diventata cosi quella voce che tutti conosciamo e che esprime i diversi sentimenti soprattutto con variazioni di volume e di vibrazione, mentre la sua flessibilità timbrica è limitata a pochi generici chiaroscuri. E proprio l'uniformità implacabile di questo colore rende stucchevole l'audizione di tante esecuzioni monteverdiane - e non solo di quelle - anche quando c'è un interesse per la parola; alla quale però si impedisce di realizzarsi nel suo modo di essere naturale.
Tutto questo, perché, come appare da uno studio attento delle musiche - oltre che da una sua dichiarazione -, le opere di Monteverdi, cosi come sono scritte, sono in certo qual modo incomplete in quanto tanta parte non scritta di esse è affidata all'interprete; ed in misura molto maggiore di quanto solitamente non accada. Non si tratta qui del solito rapporto fra musica ed interprete, ma di quel "certo ordine di procedere, nelle compositioni, che non si può scrivere"
27 che, se non applicato, viene addirittura a falsare il significato delle musiche stesse. Sempre nelle direttive riguardanti l'esecuzione de La finta pazza Licori, Monteverdi dice fra l'altro: "... la immitatione dovendo haver il suo appoggiamento sopra alla parola et non sopra al senso della clausula ...". L'importanza della frase è capitale. Con essa Monteverdi arriva a dire implicitamente che le sue frasi musicali potrebbero aver vita propria anche se non sostenute dalle parole, ma che tuttavia il loro significato reale viene espresso soltanto se interpretate secondo il momento affettivo del testo poetico. La notazione cosi com'è andrebbe dunque "integrata" al momento dell'esecuzione dal "fino gusto et intelligentissimo" dell'esecutore.28Gli effetti più macroscopici di questo fatto si riconoscono soprattutto in campo dinamico ed agogico, ma, se pur meno frequentemente, si manifestano anche in quello cromatico. Non crediamo ci sia, in tutta la storia della musica, trattato di composizione il quale non insista dicendo che, nelle musiche vocali, i valori musicali devono ricalcare fedelmente gli accenti ed i valori prosodici.
29 Ma, puntualmente, proprio nel momenti più ispirati, Monteverdi contravviene alle "regole" in modo che verrebbe fatto di dire grossolano. Si tratta solitamente di un falsamento, appunto, dei valori prosodici per prolungamento del valore della nota che, nel caso di quelle esecuzioni monocrome e preoccupate solo del "senso della clausula", viene a rompere la tensione che, tuttavia, si era venuta a creare in virtù della sola frase musicale. Ma quando la "immitatione" trova "il suo appoggiamento sopra la parola" - "quando dunque parlerà di guerra bisognerà immitar la guerra, quando di pace la pace, quando di morte morte; et va seguitando ..." - ci si accorge che quegli allungamenti, apparentemente inopportuni, stavano ad indicare - e prevedevano nell'esecuzione - un colore ben preciso e strettamente aderente al momento psicologico del testo letterario.Si veda, ad esempio, il madrigale "Batto qui pianse" dal Sesto Libro. Dopo l'episodio iniziale a cinque (25 battute) i due soprani si ritrovano a cantare da soli per venti battute col sostegno del basso continuo e, dalla battuta 33 alla 36, ripetono cinque volte la frase: "saetta questo cor".
Un'esecuzione rispettosa soltanto della lettera ci dà la sensazione di un cedimento improvviso nell'ispirazione che, fino a questo momento, aveva seguito con drammaticità e naturalezza il testo poetico. Dopo la frase iniziale, che scorre cosi fluida e convincente anche senza particolari intenti interpretativi, l'episodio sembra appesantirsi improvvisamente a causa della figurazione. A parte i gruppi "croma puntata - semicroma", che appaiono come tante buche in cui il piede si inciampa, noi sentiamo innaturale e greve la semiminima che regge la sillaba iniziale di "saetta" e ci domandiamo, perché la stessa nota non sia stata scritta con una croma, che avrebbe dato la logica corrispondenza fra i valori prosodici e quelli musicali. Ma proviamo ad esaminare dal punto di vista psicologico il momento dell'azione. Ergasto sta inseguendo inutilmente Clori cacciatrice che, inseguendo a sua volta "cerva fugace - non so se più seguiva o se fuggiva". Disperato,
- Deh mira - egli dicea -
se fuggitiva fera
pur saettar tanto ti piace
saetta questo cor che soffre in pace
le piaghe, anzi ti segue e non le schiva.
La situazione è quella tanto comune dell'innamorato che, giudicando l'indifferenza della persona amata come volontà di farlo soffrire, arriva a dire: "Uccidimi! Tu sarai felice della mia morte ed io non soffrirò più". Quel "saetta", che viene ripetuto tante volte, è dunque l'espressione di una condizione psicologica molto complessa nella quale entrano: amore, disperazione; sfiducia in se stesso, volontà di ferire l'altra persona nei sentimenti provocandola con frasi crudeli, ecc. La sua giusta dimensione espressiva non potrà essere che una: una voce che, esprimendo i sentimenti suddetti col colore che si userebbe in una recitazione teatrale, venga quasi strascinando fra i denti la frase letteraria mentre la laringe e l'apparato di risonanza sostengono la frase melodica tesa come una traettoria che vada a trovare il suo punto di impatto sulla parola "cor". Ecco, in questo modo, tutti i valori ritmici acquistare il loro giusto significato mentre ci si accorge di come quella croma, che noi avremmo sostituito alla semiminima, avrebbe reso banale e priva di tensione la frase che, così, è invece tanto, intensamente drammatica.
A prova indiziarla di quanto detto c'è da addurre un avvenimento. Il 9 di marzo del 1608, a poco più di due mesi dalla rappresentazione dell'Arianna, muore Caterinuccia Martinelli che avrebbe dovuto esserne la protagonista. La sua morte mette in crisi l'esecuzione dell'opera perché non si trova chi possa sostituire degnamente la "Romanina". Una cantatrice come Settimia Caccini, figlia di Giulio, viene giudicata buona per la parte di "Venere" ma non per quella di "Arianna". Orbene, pur avendo a disposizione le migliori cantatrici del tempo Monteverdi ricorre ad una attrice: Virginia Andreini detta la Florinda. Non è neppure da pensare che la sua voce potesse competere in bellezza ed educazione con quelle di cantanti professioniste, né che, se si fosse trattato della sola arte scenica, egli avrebbe sacrificato in tanta misura la musica a quest'ultima. Piuttosto è logico concludere che, dotata di una bella voce naturale, la Andreini supplisse a iosa alle inevitabili deficienze vocali con le doti espressive. E mentre sappiamo qual è il modo di cantare spontaneo degli attori, sappiamo pure di quali tradizioni drammatiche fosse erede questa attrice lombarda. Del suo stile è poi testimone il generale Carlo Rossi che, dando notizia al Duca delle vicissitudini dell'Arianna, scrive: "... avendo volsuto questa sera Madama sentire la Florinda che ne aveva imparato la parte più difficile, la dice di maniera che ne è rimasta stupita talché sarà mirabile: ...".
30 Anche questa testimonianza conferma indirettamente il quadro precedentemente esposto.Dopo le considerazioni fatte, è il caso di riprendere in esame l'argomento della "voce chiara" con quello del "vibrato". Nella prefazione al Combattimento di Tancredi e Clorinda si legge: "... ; la voce del Testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia ...". L'accenno alla "bona pronuntia" non è che un corollario a quanto già detto e non pare apportare elementi nuovi all'argomento. Più interessanti appaiono invece i due aggettivi "chiara" e "ferma".
Dall'aggettivo "chiara", essendo riferito ad un caso particolare, non è lecito ricavare una conferma generale a quanto precedentemente si è creduto di dover ricavare per via induttiva.
31 Nel caso particolare ci pare piuttosto che quel "chiara" sia da ritenersi strettamente connesso, tanto dal punto di vista espressivo quanto da quello dell'emissione del suono, al "ferma" che gli tiene dietro e che riteniamo di grande importanza.Quel "ferma" è un documento dell'uso, che doveva essere allora diffuso, di due tipi di emissione distinti ma capaci di sfumare, senza soluzione di continuità, l'uno nell'altro: la "voce ferma" e la "voce vibrata". La pratica odierna non conosce che quest'ultima, ma chi legga attentamente il Mancini
32 non potrà non accorgersi di come sia costante la sua preoccupazione di educare l'allievo sia all'uso della voce ferma che di quella vibrata ai fini espressivi. Questa preoccupazione, in una lettura non particolarmente interessata all'argomento, può passare inosservata. Ciò non è da imputarsi alla sua scarsa importanza nelle intenzioni dell'Autore ma al fatto che quest'uso era allora fra le cose tanto ovvie da non sollecitare l'esigenza di un rilievo particolare nella trattazione. Se è vero che le "Riflessioni ..." sono posteriori di più di un secolo a Monteverdi, è altrettanto vero che una rottura nella tradizione vocalistica non era ancora avvenuta e, almeno il fatto che il cremonese richieda un effetto ancora in uso cent'anni dopo, lo dimostra.Come già il "trillo", la pratica della voce "ferma" e di quella "vibrata" va considerata inquadrata sia tecnicamente che psicologicamente in quel complesso di attività fisiologiche che consentono - come già sottolineato - di "aggiungere ... la vocale del petto a quella della gozza" e di eseguire il "trillo". Tutto dipende dal dominio sul diaframma raggiunto dal cantante e dalla sua discrezione nell'usarne.
Tornando ora alla prefazione al Combattimento, si osservi che Monteverdi fa riferimento ad un personaggio specifico: il Testo. Il che implica che a questa parte egli richieda qualcosa di diverso dalle altre due. Già l'esame del componimento poetico ci mostra come al Testo sia riservata una linea più tesa e continua delle frasi vibranti con le quali si esprimono i due protagonisti. L'analisi di quello musicale ci dimostra ancora una volta come Monteverdi riesca a "vibrare sulla stessa lunghezza d'onda" del poeta amplificandola ad altezze di cui solo il suo genio era capace. Se "la voce del Testo doverà essere chiara e ferma" è inevitabile dedurre che le altre dovranno essere diverse. Considerato che la parte di Clorinda deve essere necessariamente retta da una donna e che la tessitura generale di Tancredi
33 è di circa una terza più bassa di quella di quest'ultimo si dovrebbe dedurre che - e vien fatto spontaneo il pensare alla lettura quaresimale della "Passio", dove la parte del cronista viene affidata per tradizione al tenore - nelle intenzioni di Monteverdi i personaggi dovrebbero essere caratterizzati da colori vocali diversi. Ma, si noti, non tanto dal fatto che la voce di Tancredi dovrebbe essere di tenore baritoneggiante rispetto a quella di tenore più chiaro del Testo (in fondo, quel "chiara" potrebbe anche voler dire questo), quanto da quella "fermezza" che verrebbe a dare risalto al "vibrato" implicito per gli altri due personaggi. Il che aderirebbe perfettamente alle caratteristiche psicologiche delle diverse parti. Aderenza tanto ovvia da non richiedere una dissertazione sull'argomento.Piuttosto si deve osservare come anche qui Monteverdi precorra i tempi andando, nell'innovazione, oltre ai suoi successori. L'800 arriverà ad abbinare definitivamente le voci al ruoli. Così, per esempio, il tenore sarà l'amoroso, il contralto la vecchia, ecc. Ma in questo modo l'abbinamento rimarrà ad uno stadio molto rudimentale, tanto che noi abbiamo visto - per citare il caso forse più evidente - Rosina, protagonista del Barbiere, nata contralto farsi soprano leggero. In Monteverdi non è tanto la scelta delle voci a determinare il personaggio, quanto il modo vocale di esprimersi: il "gridar fuori" di Tancredi e Clorinda con la loro voce vibrata e il "gridar dentro" del Testo che, cronista si, ma partecipe della tragedia in atto come testimone oculare, esprime i suoi sentimenti "a similitudine delle passioni dell'oratione" con un'incisività resa più penetrante proprio dalla fermezza della sua voce. E il carattere del momento per il quale Monteverdi concede l'eccezione di "far gorghe e trilli" - "la stanza che comincia Notte" - conferma per contrasto quanto detto.
Diversa era la vocalità chiesastica. La necessità di riempire di suoni le chiese veniva soddisfatta per tradizione più col cantare "a voce piena" che con la "moltitudine dei cantanti". Non dobbiamo infatti lasciarci ingannare da parole come "moltitudine", "turba", ecc. che nascevano per contrasto col numero ristretto di cantanti, che si usava per "le camere". I "trenta e più cantori" della Cappella Dogale di S. Marco sono poi l'organico che è in grado di raggiungere oggi una cantoria parrocchiale e, tuttavia, tale "moltitudine" era eccezionale rispetto a quella delle Cappelle comuni. E comunque trenta cantori avrebbero il loro da fare per riempire S. Marco delle loro voci, soprattutto se divisi in più cori.
Da tempo, dunque, si usavano due diversi modi di cantare. Già abbiamo sentito il Vicentino; sentiamo ora il solito Zarlino: "Haveranno etiandio li Cantori questo auertimento, che ad altro modo si canta nelle Chiese et nelle Capelle publiche, et ad altro modo nelle priuate camere: imperoche lui si canta a piena uoce: non però se non nel modo detto di sopra
34 et nelle camere ..." come già citato.35Verosimilmente il termine "a voce piena" era convenzionale per indicare questo tipo di vocalità, in quanto ritorna immutato in autori di tempi diversi.
36 È ora da vedersi a che cosa corrispondesse. Immutata evidentemente l'impostazione "naturale" della voce, questa non poteva, nella espressione di un "forte", farsi altro che "piena" senza però arrivare ad essere "sforzata", ché , in questo caso, incorreva nelle ire di tutti i trattatisti dell'orbe. Probabilmente possiamo avere un esempio di questo tipo di vocalità in quelle belle voci naturali che, non essendo mal state viziate dalla lirica, cantano a piena voce, ma senza gridare e senza tentare di superare il loro ambitus.Ancora una volta Monteverdi ci lascia intravedere i suoi intendimenti in una lettera. A proposito di un certo praticone abile in ogni campo attinente in qualche modo alla musica, dice: "... le messe et dixit sono di uno stile ricco di armonia si, ma difficoltose da cantarsi perché va cazzando certe parti et interrumpimenti che troppo affaticano il petto et affannano i cantanti". Se con quel "troppo" ammette come inevitabile una certa fatica nel cantare "nelle chiese", con quel "cazzando" - che si estende figuratamente dalle note scritte alla loro esecuzione ed esprime vivacemente l'idea dello sforzo - lascia intendere i limiti che a quella fatica sono da porsi.
Il colore nella "voce piena" ha inevitabilmente minore possibilità di piegarsi a sfumature espressive, ma è il caso di ricordare che, trattandosi di musica liturgica, gli affetti terreni, durante la sua esecuzione, dovrebbero tacere. Anche se la musica sacra di Monteverdi pare ispirata più dal Figlio che dallo Spirito Santo.
Piuttosto è interessante esaminare l'uso che egli fa del termine "a voce piena" a proposito dei madrigali "Dolcissimo uscignolo" e "Chi vol haver felice",
37 dal momento che ci si bisticcia per decidere se si tratti di un diverso modo di comporre o di cantare. La questione ci ha tutta l'aria di essere di lana caprina e che si tratti di una cosa e dell'altra. Se nessuno scambierebbe quelle linee musicali per quelle composte da un francese, è innegabile che la melodia abbia una certa allure oltremontana. Per una volta sentiamo che la musica di Monteverdi non ha vita dipendente strettamente solo dalla poesia, ma che la melodia si snoda distesa e che le "clausule" la vincono sulla parola. Si può ottenere una prova scarsamente ortodossa ma convincente di questo fatto ... sostituendo con altre le parole del madrigale. Il senso musicale del brano non cambia più di quanto cambi quello di "Di Provenza il mare e il suol" nelle diverse strofe. Ma si provi a cantare "Ecco mormorar l'onde" nell'abominevole versione inglese della "Ricordi Americana": "Here the murmuring waters" e poi si senta se il madrigale esiste ancora!Potremo dunque cantare "Dolcissimo uscignolo", cesellandolo e colorandolo come la Lettera amorosa? Evidentemente no. La sola voce capace di esprimerne la giusta dimensione sarà una voce distesa, "Piena, alla francese".
E quest'ultima espressione suggerisce l'idea di una ricerca comparata su due vocalità diverse e contemporanee.
La ricerca musicologica sulla vocalità antica deve tener conto, evidentemente, delle possibilità analitiche ed interpretative che derivano: 1) dall'evoluzione delle conoscenze in campo tecnico per le scienze fonologica e fonetica; 2) dei mezzi tecnici di cui è dotato l'arsenale dei moderni laboratori di foniatria.
Pertanto, più che ripetere, oppuranche aggiungere, considerazioni di estetica sulla scrittura delle partiture, riteniamo più convincente porre ipotesi musicologiche desunte, non solo dalle parti per voci, ma soprattutto dalla ricerca filologica condotta sul testi dell'epoca e cercare una ricostruzione di tale vocalità verificandone gli aspetti obiettivi mediante i mezzi dianzi accennati.
Quanto premesso, porterebbe a concludere per un vasto lavoro di analisi ed interpretazione elettroacustica di oggetti sonori, in rapporto con le ipotesi musicologiche.
Tali indagini sono in corso
38 e necessitano di altro lavoro e di altra presentazione perché possano essere colte nel loro intrinseco nuovo significato, non solo semelologico ma semantico, nel senso dei nuovi criteri che fanno del mezzo stesso un contenuto.Ci riserviamo pertanto di riprendere l'argomento e presentare altrimenti le nostre ricerche; in questa sede desideriamo unicamente offrire a mo' di campione alcuni saggi di analisi in rapporto a quanto affermato precedentemente.
Il primo saggio si riferisce all'episodio, tratto dal madrigale "Batto qui pianse" (seconda e terza battuta dell'esempio musicale), eseguito in prima versione tenendo conto dei caratteri vocali intrinseci - e che crediamo peculiari appunto - della vocalità monteverdiana; eseguito in seconda versione tenendo conto della sola scrittura musicale.
In tutte le analisi abbiamo comparato a due a due gli esempi.
La fig. 1 presenta una analisi frequenziale, per bande strette di frequenze (meglio visibili nella parte inferiore della figura).
In essa la linea inferiore rappresenta la prima armonica - o fondamentale mentre le righe più in alto rappresentano le successive armoniche.
Sovrapposta all'analisi frequenziale è l'analisi dell'intensità nel tempo (le due righe più scure in alto).
La fig. 2 presenta una analisi frequenziale a bande larghe - cioè per frequenze pressoché continue , mentre la fig. 3 ci dà - sempre dello stesso esempio - una rappresentazione tridimensionale dove una dimensione rappresenta le frequenze, la seconda il tempo e la terza - le diverse gradazioni di grigio - l'intensità.
La fig. 4 rappresenta lo spettro (timbro) delle vocali /e/ ed /o/ di "saetta" e di "cor" in analisi per frequenze a bande strette e larghe.
Quest'ultima figura ci dimostra chiaramente come le vocali, che sono gli unici elementi musicalmente modulabili (le consonanti infatti non lo sono) abbiano un loro timbro (spettro o colore) intrinseco che non varia sensibilmente (in senso "gestaltistico", s'intende) qualunque sia la nota su cui vengono cantate e qualsivoglia sia lo stile del canto.
E appunto l'uso sapiente e voluto di queste differenze timbriche (quasi una klangfarbenmelodie vocale), che distingue la vocalità monteverdiana da quella dell'opera lirica ottocentesca italiana.
Le precedenti figure 1, 2 e 3 possono essere considerate globalmente.
La curva intensità-tempo ci mostra l'alternarsi di sonorità (S, A, E, A, U, E, S, 0) e silenzi (TT, Q, T, C). I silenzi corrispondono alle vocali occlusive o esplosive (P, T, C, e, meno, B, D, G e M, N).
Le parti sonore invece corrispondono alle vocali (come detto, le sole musicalmente modulabili) che, nella parte inferiore della fig. 1, sono rappresentate dalle parti a righe regolari (fondamentale ed armoniche) ed alle consonanti sonore (ma non musicalmente modulabili) che, sempre nella parte inferiore della fig. 1, sono rappresentate dalle irregolari colonne delle due S.
Indubbiamente una scrittura vocale nel senso di "recitar cantando", tiene conto non solo dei timbri delle vocali, ma anche dei ritmi che si possono creare con sapienti alternanze di silenzi consonantici e sonorità consonanti o vocali.
È ciò infatti che ha voluto il Monteverdi e pertanto l'esecutore dovrà dosare questi elementi.
A colpo d'occhio si vede infatti nelle figure 1, 2, 3 come nella parte superiore delle immagini sia stato tenuto conto di quanto detto (curve modulate, aspetto molto vario di tutti gli elementi) mentre nella parte inferiore, non essendo stato tenuto conto della vocalità intrinseca, l'aspetto sia molto più quadrato, regolare, prevedibile e, quindi, non appieno sfruttato.
Il secondo esempio si riferisce al Tancredi iniziale del Combattimento e la fig. 5 ci raffigura - mediante una analisi frequenziale per bande strette -: in alto la voce "ferma" (non modulata) e, in basso, la voce vibrata (presenza di onde, specialmente ben evidenti a livello delle armoniche superiori che sono completamente assenti nella contrapposta registrazione di voce tenuta ferma).
DISCUSSIONE
S. HERMELINK. Wohl spricht Zarlino an der vorn Verfasser angegebenen Stelle (Istitutioni
21573, S. 244) von cantare a piena voce im Gegensatz su cantare a voce piú sommessa e soave, also im Sinne ciner bestimmten vocalità. - Daneben aber war der Ausdruck "a piena voce" zu Monteverdis Zeit vor allem als kompositionstechnischer Terminus geläufig und bedeutete "vollstimmiger Satz", d. h. Ausnützung des gesamten Vokalbereichs (= 19-20 diatonische Stufen) durch die vier Stinimen Sopran, Alt, Tenor, BaB, im Gegensatz zu "a voce mutate", námlich durch Weglassen der Knabenstimmen, d.h. des Soprans reduzierter Bereich (= 15-16 diatonische Stufen) und zu "a voci pari", nämlich weiter reduzierter Bereich nur für Tenöre und Bässe oder andere benachbarte Stimmgruppen (= 13-14 diatonische Stufen). Cf. ZARLINO, a. a. 0., S. 418 und TH. MORLEY, A plain and easy Introduction, ed. Harman (1952) S. 275 sowie S. HERMELINK, Dispositiones modorum, Tutzing 1960, S. 25 ff. So bezeichnet z. B. Palestrina seines zweiten Buchs vierst. Motetten (1581) dessen Inhalt als partim plena voce et partim paribus vocibus, weil darin neben voll besetzten Stücken einige ad aequales gesetzt sind.Zweifellos ist auch in Monteverdis Achte Madrigalbuch bei den vom Verfasser besprochenen Madrigalen "Dolcissimo usignolo" und "Chi vuol haver" mit piena voce die vollständige A-cappella-Besetzung (und nicht die Klangffülle der einzelnen Stimmen) gemeint, denn diese beiden Stücke sind die einzigen dieser Art innerhalb des ganzen Bandes. Auch die vielfältig wechselnde Besetzung der übrigen Stücke ist jeweils in entsprechender Weise in deren Titel spezifiziert. Sogar das beigefügte alla francese dürfte sich auf die Besetzung beziehen, nämlich auf die für A-cappella-Stücke ganz ungewöhnliche (aber bei den französischen Airs und Ballets de Cour sich cinbürgernde) Schlüsselung G
2 C1 C3 C4 F4 also eine Kombination normaler Vokalschlüssel mit einem Violinschlüssel für den ersten Sopran (woraus sich ein übermäßig erweiterter Gesamtbereich ergibt). Hieraus wiederum dürfte sich der merkwürdige Zusatz zu diesem ersten Sopran Canto in tuono erklären: er soll gesungen werden, wie er dastelit, nicht tiefer transponiert, wie das sonst bei Chiavette (wo der Diskant bekanntlich stets im Violinschlüssel erscheint) der Brauch war.M. UBERTI. Mi sia concesso soltanto di dire che nella nota 35 della mia relazione avevo già rilevato quanto osservato dal Prof. Hermelink. Le diverse occasioni nelle quali si incontra mi confermano però nell'opinione che l'espressione "a voce piena" abbia una doppia accezione: una riferita alla prassi esecutiva, l'altra alla vocalità.
NOTE
*
Isolare dagli altri uno dei parametri dell'espressione, come si fa in questo studio, è in sé arbitrario. Il "colore" assume nella vocalità un significato diverso da quello che gli dà l'acustica ed implica componenti fisiche che sono più propriamente dinamiche ed agogiche. Ma una trattazione di questi altri due parametri non potrebbe essere fatta senza tener conto delle acquisizioni della psicologia sperimentale ed il discorso si trasformerebbe in un trattato. Del resto, lasciate fuori della porta, queste stesse componenti faranno capolino dalla finestra più o meno scopertamente.L'altro motivo, a causa del quale si è voluto trattare separatamente l'argomento, è che il "colore", nella pratica interpretativa vocale, è il grande dimenticato. In più, lo consiglia la chiarezza di trattazione. Ma, - ahimè! - l'anatomia ha sempre richiesto il sacrificio dell'animale studiato.
1
Il contrasto si avverte minore quando gli strumenti sono moderni; e la limitazione nell'uso di quelli antichi è probabilmente una delle cause che contribuiscono a nasconderlo all'orecchio dei più. Così un pianoforte regge perfettamente qualsiasi potenza di voce mentre il timbro dato dall'impostazione moderna "sfera" meno in mezzo alla sonorità brillante della nostra orchestra che in quella ovattata dell'antica.2
In "La Rassegna Musicale" (1951), PP. 33-38.3
G. F. MALIPIERO, Claudio Monteverdi, Milano, Treves, 1930.4
Il termine ha dato luogo ad equivoci e discussioni per tanto tempo. Sia chiaro che qui non ha assolutamente il valore di grezza o ineducata. Tanto ritenevamo prudente dover premettere.5
Ci pare che si possa portare ad esempio efficace il caso delle corde da chitarra che, morbide e flessibili nella chitarra classica, si fanno spesse e rigide in quella da jazz onde dare - eccitate necessariamente con energia maggiore - un suono più robusto, sia pure se meno gradevole.6
Già il VICENTINO si preoccupa saggiamente "De i termini et modi, che si debbono tenere nel comporre le parti, del canto figurato ..." dicendo: "Si da regola, et termine, alle parti del canto figurato, per commodità dei cantanti, et acciò che ogni uoce commune possi cantare la sua parte commodamente; questa commodità sarà communa, si alle uoci buone, come a quelle non troppo gagliarde e potenti; ... et mai si dé aggiognere righa alcuna, alle cinque righe, ne di sotto, ne di sopra, in nissuna parte, ne manco mutar chiaui in mezzo, ne nel fine di alcuna compositione perché saria il medesimo, come aggiognere una riga alle cinque righe, et quella parte saria troppo alta, ò troppo bassa al cantante siche il compositore starà ne termini di tutti i spatij, et di tutte le righe". L'antica musica ridotta alla moderna prattica, Roma 1555, a c. 80r.7
Tuttavia il fatto di avere a disposizione i migliori cantanti del suo tempo gli consente, nei brani monodici, di scrivere in tessiture molto ampie. Si deve però osservare che questo avviene di preferenza per le voci basse (cfr. e. g. "lo che nell'otio nacqui", dall'Ottavo Libro) che, più frequentemente delle acute, accade abbiano estensione molto ampia per natura. Piuttosto sembrerebbe contraddire a quanto sopra un folto gruppo di madrigali a cappella, nei quali le parti sono scritte in tessiture molto acute. Bisogna osservare che, in questi casi, l'ambitus entro il quale si muovono le singole voci è equivalente, per estensione, a quello dei madrigali soliti. Appare più logico spiegare il fatto come un ripiego atto a compensare le deficienze dei sistema modale - ripiego che doveva essere compensato nell'esecuzione pratica coli opportune trasposizionì - piuttosto che coli l'intenzione reale di far cantare in tessiture che non sarebbero state di certo "senza discomodo e senza fatica".8
G. F. MALIPIERO, Op. cit., p. 165.9
Cfr. nota 6.10
Il paolino "mulieres in ecclesiis taceant" (i, Cor. XIV, 3 4) dovrà avere poi effetti pratici maggiori dell'evangelico "et sunt eunuchi, qui seipsos castraverunt propter regnum caelorum" (Mt. XIX, 12).11
Sistema francese delle ottave.12
Istitutioni harmoniche, Venezia, rist. 1573, P. 240.13
Op. cit., a c. 86 r.14
Cfr. G. B. MANCINI, Riflessioni pratiche sul canto figurato, 31 ed., Milano 1777, Art. vii, "Della maniera di cavare, modulare e fermare la voce.", p. 119.15
G. F. MALIPIERO, Op. Cit., P. 265.16
Esperienza pratica di un fenomeno analogo può essere fatta con le file del ripieno nell'organo. L'introduzione delle "quinte" vale a rendere il suono più vivo e penetrante che l'introduzione delle "ottave".17
G. F. MALIPIERO, Op. Cit, P. 252.18
Discorso della musica antica e della moderna, 1581.19
G. ZARLINO, Sopplimenti musicali, Venezia 1588, "Dell'imitatione, che si può far nel comporre et recitar la Musica ò Melopeia. Cap. xi", p. 316.20
Riteniamo inopportuno riportare qui una bibliografia scientifica che esulerebbe dagli intenti di questo Congresso.21
G. F. MALIPIERO, Op. Cit., p. 260.22
È noto che ogni vocale ha un proprio "timbro" caratterizzato da uno spettro acustico dato da gruppi di armoniche che vanno sotto il nome di "formanti", Dalla posizione della prima e della seconda formante si distinguono le vocali. Sfruttando le suddette caratteristiche timbriche, il compositore, come - prima di lui - il poeta, potrà "strumentare" le sue composizioni vocali. Per la vocalità poetica può essere esempio tipico il celeberrimo endecasillabo virgiliano "quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum" nella cui lettura metrica vien messa in rilievo la vocale "posteriore" /u/ assieme alla nasalizzazione. Per Monteverdi uno degli esempi più rappresentativi è dato dall'inizio di "Ecco mormorar l'onde" Secondo Libro. Qui, alla frase iniziale, ricca di /o/ chiuse ("mormorar" e "onde"), intonata sulle corde più basse da tenore, basso e alto, risponde quella aperta e distesa di quinto e canto che, abbandonandosi sulla /a/ (più chiara della /o/) di "aura", schiariscono il loro timbro fino alla /i /(vocale "anteriore") di "matutina".23
Ancora un secolo dopo, MANCINI insiste su questo carattere della voce: "... Il primo è quello di cavar la voce, senza pulito badare alla apertura della bocca, e aprirla male, cioè in modo che la voce non esca chiara, sonora e bella". (Op. cit., p. 105); "... Se l'unione di queste due parti sarà nel dovuto punto di perfezione, la voce non sarà che chiara ed armoniosa; ... (p. m4)". Dobbiamo arrivare al tenore Domenico Donzelli (1790-1873) per sentire la voce scurirsi.24
I cantanti wagneriani ci riescono. Ma per spiegare il fatto è necessario addentrarsi in particolari fonetici e di confronto fra le due lingue che finirebbero comunque col confermare quanto affermato.25
La pronunzia chiara e corretta è il solo mezzo che consenta di sciogliere e rendere "orizzontali" certi contrappunti a valori lunghi che, nell'esecuzione poco preoccupata della parola, tendono ad assumere il carattere "verticale" del corale luterano. Cfr., e. g., il finale di "Ecco mormorar l'onde" e l'episodio "così dolce dolermi" del madrigale a nove voci "Questi vaghi" (Quinto Libro).26
Probabilmente la spinta ricevuta dall'organaro tedesco a moltiplicare il numero dei manuali non è da considerarsi indipendente dal fatto che l'aggiunta delle "terze" scurisce le "mixturen" rispetto al "ripieno" italiano e rende indispensabile compensare con la contrapposizione di registri diversi la scarsa chiarezza dei contrappunti.27
N. VICENTINO, op. cit. a c. 94 v.28
La stessa necessità di aderenza al testo viene ribattuta dallo stesso Monteverdi nella prefazione al Combattimento: "... il rimanente porterà le pronuntie a similitudine delle passioni del'oratione".29
Particolarmente degno di nota è il Cap. xxix - "Modo di pronuntiare le sillabe lunghe et breui sotto le note; et come si dè imitare la natura di quelle, con altri ricordi utili" - dell'Op. cit., del VICENTINO a cc. 85v-86v. L'abbondanza e la finezza delle osservazioni indicano un conoscitore profondo e sensibilissimo della voce e del canto, mentre lasciano intravedere un maestro di cappella di grandezza insospettata.30
Lettera del 14 marzo 1608, in D. DE PAOLI, C. Monteverdi, Milano 1945.31
Cfr. nota 2 a pag. 526.32
G. B. MANCINI, Op. cit.: "Art. vii. Della maniera di cavare, modulare, e fermare la voce". (p. 119); "Ecco il sistema, ch'è l'unico mezzo per fermare la voce, ..." (p. 128); "... Il cantar di portamento, il fermar la voce, ..." (p. 162); ". . . e poi vi si deve unire il brio, l'agilità di voce, il vibrare, ..." (p. 164); "... quella tal convenevole nota, bisognosa d'essere animata, oppur vibrata, ..." (p. 176); "... È naturale, che in se stessa la corda grave dev'esser vibrata, oppur sostenuta con forza, ..." (p. 203); ecc. numerose altre volte.33
La cui parte, come quella del Testo, è pur scritta in chiave di tenore.34
Cioè: "... con uoce moderata, et proportionarla con quelle degli altri Cantori di maniera che non superi et non lascia udire le uoci degli altri ...". Ist. harm., p. 240.35
Ibidem.36
Tuttavia, il termine "a voce piena" veniva usato anche, contrapposto a quello di "voce mutata", per indicare l'esecuzione delle musiche fatta usando correttamente le voci previste dall'autore. Quando l'organico non lo consentiva le composizioni si cantavano "a voce mutata". Per esempio: il tenore cantava la parte del soprano abbassata di un'ottava, il contralto diventava soprano; e così via.37
Dall'Ottavo Libro; "a cinque voci cantato a voce piena, alla francese".38
Presso il Centro Studi della Voce Parlata e Cantata del Reparto Fonetica della Clinica O.R.L. dell'Università di Torino e della Camerata Polifonica di Torino.