MAURO UBERTI

IL METODO PRATICO DI CANTO
DI NICOLA VACCAJ

NUOVA RIVISTA MUSICALE ITALIANA, RAI, Roma
Numero 1 gennaio-marzo 2004, pp. 43-67

 

E’ difficile trovare cantante, italiano o straniero, che, poco o molto, non abbia studiato il Metodo pratico di Canto Italiano per Camera in 15 Lezioni 1 di Nicola Vaccaj; dire perché questo sia il metodo di canto più diffuso nel mondo lo è altrettanto. Se si indaga infatti sulle ragioni della scelta di questo metodo, si ottengono le risposte più disparate: perché è facile o perché è difficile, perché è un metodo per principianti o perché è un metodo di perfezionamento, perché serve per imparare a cantare la musica del primo Ottocento o perché non è didatticamente datato. E via di questo passo. Mi guarderò dal prendere posizione per una tesi piuttosto che per un’altra anche perché ognuna di esse ha argomenti per essere sostenuta. Mi guarderò pure dal pretendere di "aver capito" quel metodo e riferirò semplicemente le griglie di lettura che ne propongo ai miei allievi. Anch’io, cioè, lo osserverò dal mio personale punto di vista, conscio del fatto che il mio, come quello di tutti, è un punto di vista parziale; parziale perché ogni punto di vista consente l’osservazione di una parte soltanto dell’oggetto e parziale perché riflette inevitabilmente la mia personale concezione della didattica del canto.

Le "15 lezioni" sono in realtà composte di ventidue ariette. Il tipo di "lezione", proposto dal Vaccaj rispetta lo schema piuttosto ricorrente, secondo il quale i didatti del canto la cui prima identità è quella di cantanti tendono a insegnare per vocalizzi mentre quelli la cui prima identità è quella di compositori tendono invece a insegnare per solfeggi. Il fatto è normale: i cantanti sono più interessati alla voce e i compositori sono più interessati alla musica. Vaccaj pubblica il suo Metodo nel 1833 a Londra essendovi arrivato l’anno precedente dopo un soggiorno di tre anni a Parigi e la sua novità rispetto agli altri compositori-didatti è piuttosto quella di scrivere esercizi vocali, anziché in forma di solfeggi, in forma di ariette, cioè di vere e proprie composizioni anche se più semplici e schematiche dell’aria col "da capo". Nella breve prefazione all’opera 2 egli dà la spiegazione formale della sua scelta didattica.

Oggetto del Metodo Pratico

Non v’ha dubbio che il Canto italiano pel gran vantaggio che riceve dalla lingua stessa, superiore nella musica a qualunque altra, è quello da cui deve cominciare chi desidera di ben cantare, giacché questo conosciuto, facile resta il cantare in tutti gli altri idiomi se si parlano; il che non sarebbe con altri cominciando. Per lunga esperienza però ho conosciuto che nella Germania, nella Francia, nell’Inghilterra, e dirò anche nell’Italia stessa molti, se non tutti quelli, che per loro diletto lo apprendono, non amano punto d’intrattenersi con lunghi solfeggj ed esercizj; adducendo essere loro scopo soltanto di cantare in camera; quindi a nessun metodo attengono. Ad uno dunque pensai, ed è questo ch’io presento, di un genere tutto nuovo, breve, dilettevole, ed utile, col quale si potesse egualmente, e più presto pervenire al medesimo intento.

Ma siccome la difficoltà maggiore per gli Stranieri si è quella di parlare cantando una lingua non propria, ancorché avessero per qualche tempo solfeggiato, e vocalizzato, immaginai, che fin dalla scala fosse meglio di accostumarsi a questa, piuttosto che a sillabe vuote di senso 1, e scegliendo fra le belle poesie di Metastasio quelle che più adatte mi parvero, me ne sono servito a rendere forse meno ingrate quelle prime regole che nessuno vuol praticare onde isfuggirne la noia.

Sono certo, che non solo sarà questo utilissimo ai dilettanti, ma anche quelli che si daranno al Canto per professarne l’arte, perché può servire di schiarimento ad ogni altro metodo, per essere composto con esempj dimostrativi.

1 Il cominciare coi monosillabi musicali sarà bene per quelli, che imparano il Canto insieme alla Musica, ma non insegna la vera sillabazione, perché vi manca sempre l’elisione delle vocali, e ciò che si dimostra nella prima lezione.

Può anche darsi che la sua idea iniziale del Metodo sia stata davvero quella di sovvenire a coloro che "non amano punto d’intrattenersi con lunghi solfeggj, ed esercizj". Già leggendo fra le righe della prefazione si capisce che i suoi allievi erano essenzialmente persone della buona società; certamente figlie di buona e magari aristocratica famiglia, della cui educazione faceva parte il canto, ma anche, verosimilmente, amatori di musica i quali non potevano avere che lo "unico scopo di cantare in camera" in quanto il loro stato sociale escludeva che si esibissero su un palcoscenico. Inoltre il racconto della sua vita, fatto dal figlio 3, conferma in modo più preciso le convenzioni di una società in cui innocenti fanciulle erano indiscriminatamente condannate a studiare canto. Così avveniva "a Frohsdorf 4 presso l’ex regina di Napoli [dove il Vaccaj] altro compito non aveva oltre quello di dar lezione alle figlie del marchese, le quali non amando il solfeggiare si limitavano a ripetere battuta per battuta ciò che il maestro cantava" 5 (non diversamente, peraltro, da celebrati professionisti d’oggi). Tuttavia è talmente distillata la scelta che egli fa delle "poesie del Metastasio" e così magistrale il loro impiego a fini didattici da lasciare scettici sul fatto che le sue fatiche fossero rivolte soltanto ad alleviare la noia del solfeggio a dilettanti sfaticati. Del resto nelle pagine dedicate al Metodo pratico il figlio ci dice qualche cosa in più 6:

"Quel metodo consta di 15 lezioni graduali: egli peraltro lo considerava come la prima parte di un metodo più esteso nel quale avrebbe tenuto presenti i diversi generi di voci: ed al suo amico Bennati 7 il quale gliene dimostrava l’opportunità, rispondeva: "Io mi riservo di ciò fare in altro libro ove dividerò non solamente le differenti qualità di voci, ma procurerò per quanto sarà possibile di unire la teoria alla pratica, giacché stimo inutile, nel canto principalmente, il parlare della teoria soltanto quando non si insegni il modo di usarla; ed allora mi permetterai che io mi serva anche del tuo nome su quanto hai detto nella tua memoria intorno all’organo della voce. Lo scopo del mio presente metodo pratico mi sembra chiaramente esposto nel discorso che lo precede, ancorché breve, e per poter servire a quasi tutte le voci, ho dovuto per necessità limitarmi ad una estensione quasi generale. Una delle principali difficoltà del canto è l’unione dei due registri di voce quando non si possieda naturalmente; un dilettante che fosse condannato dal maestro a non cantare finche non ne ottenga la perfetta maniera si annoierebbe prima di cominciare: sembrami dunque miglior avviso il disporlo allo studio per una via più dolce e facile; ché se naturalmente sarà dotato del sopradetto dono potrà servirsi delle medesime regole da me dimostrate, in tutta l’estensione della voce.

E’ vero che per lo più tutti i metodi canto sono un composto dei medesimi esercizi per differenti generi di voce, terminate le scale ed altri passaggi, copiati l’uno dall’altro, viene una serie di solfeggi ove le grazie che appartengono al canto non sono una dall’altra separate. Io ho creduto necessaria una tale separazione, appunto perché non tutti avendo le medesime disposizioni, dovrà ognuno attenersi a quelle lezioni che sono nella natura de’ suoi mezzi; e dagli esempi esposti si vede che anche una sola grazia del canto può bastare qualche volta a piacere.

Per facilitare agli stranieri il modo di sillabare cantando, pensai di dimostrare come unire le sillabe differentemente da quello che imparano dai maestri di lingua italiana, mentre essi, ho rimarcato, fanno una scrupolosa attenzione a servirsene nel canto, come se ivi si compitasse. In quanto alla difficoltà di dire alcune parole, come sarebbe tutto, non può esser tolta che dalla voce viva di un precettore ed io avrei fatto un dizionario inutile nel numerarle.

Eccoti in succinto le ragioni per cui non ho creduto di estendermi di più nelle mie quindici lezioni del Metodo pratico." Questo metodo, cui fece poi un’appendice di 12 esercizi e 24 cadenze, pubblicato prima per conto del Vaccaj poi, presente l’autore, dal Traupenas a Parigi ed acquistato più tardi dal Boosy (sic) in Inghilterra e da Ricordi in Italia, rispose perfettamente allo scopo pel quale Vaccaj lo aveva composto. Esso venne giudicato di una utilità veramente pratica tanto che spesso fu ed è preferito agli altri molti e buonissimi metodi esistenti, e ciò non solo in Inghilterra ed in Francia, ma anche in Germania ove Ricordi, per corrispondere alle numerose domande che gli erano rivolte, diede facoltà di stamparlo in tedesco nel 1848.

Quel lavoro trattenne Vaccaj a Londra più lungamente che non avrebbe voluto, obbligandolo a ritardare il viaggio che aveva l’intenzione di fare in Iscozia ed in Irlanda."

Se è dunque vero che il Nostro mise a punto il Metodo nel suo soggiorno londinese (l’ultima pagina dell’originale tolentinate è datata: Londra 1833), l’analisi delle musiche e il fatto che esso costituisse soltanto la prima parte di un progetto più vasto inducono a pensare che le ventidue ariette siano in realtà il risultato di una elaborazione anteriore alla data di pubblicazione del lavoro e che l’idea di comporre degli esercizi vocali da cantare su testi poetici anziché su "sillabe vuote di senso" risalisse già al suo soggiorno del 1824 a Frohsdorf – dove, come abbiamo visto, aveva avuto per allieve le svogliate "figlie del marchese" – e poi a Vienna.

A questo punto si impone un approfondimento sulla scelta delle "belle poesie di Metastasio" come testi delle ariette. A noi, spettatori del ventesimo secolo, quest’autore come librettista di opere dell’Ottocento può apparire improbabile; invece nei gusti del pubblico di quel tempo egli era ancora tanto attuale che, almeno secondo quanto si ricava dalle note di Bruno Brunelli a Tutte le opere di Pietro Metastasio 8, nei primi quaranta anni del secolo il numero delle opere composte su sue tragedie sarebbe stato di trentacinque, per tacere delle quasi altrettante azioni coreografiche ricavate dalle stesse. Tuttavia Vaccaj – a differenza, per esempio, di contemporanei importanti almeno quanto lui, come Mercadante (Didone abbandonata, 1823 ed Ezio, 1827), Pacini (Temistocle, 1823 e Alessandro nell’Indie, 1824) e Rossini che intonò una ventina di volte l’aria "Mi lagnerò tacendo" dal Siroe 9 – non ne musicò mai alcuna. La spiegazione potrebbe trovarsi in quella pagina dei suoi ricordi trascritti dal figlio 10 in cui dice:

"La lettura delle opere del Metastasio mi invogliò dello stile drammatico e per quella tendenza che hanno i giovanetti di imitare, mi posi nell’arduo cimento di comporre un dramma prendendone il soggetto da Virgilio, e lo intitolai I Rutuli soggiogati da Enea.

Non aveva ancora compiti i tredici anni e mio padre vedendo in me tanto amore alla poesia ne prese compiacenza: mi condusse un giorno secolui a visitare il cav. Gavardini, suo particolare amico, il quale trovavasi alla sua villa di san Martino; e discorrendo de’ miei studi e del mio intrapreso lavoro, mi consigliò, invece di un dramma, comporre una tragedia, ed a tal fine mi diede a leggere le tragedie di Alfieri che io non aveva ancora inteso nominare. – Eccomi dunque ad ammirare ben altro stile che quello di Metastasio, eccomi dunque risoluto di convertire i miei Rutuli in una tragedia che posi a termine e mandai al cav. Gavardini summenzionato perché volesse darmene il suo sentimento".

Se si considera che i ricordi, secondo la sua dichiarazione iniziale, furono scritti nel 1848 – quando, cioè, già aveva pubblicato il Metodo – se ne ricava che la sua opinione di adulto sulla poesia del Metastasio fosse ancora quella di quando aveva tredici anni e questo spiegherebbe le sue scelte mancate per quanto riguarda le opere. E allora perché, apparentemente contraddicendosi, scegliere i suoi testi proprio e soltanto per il Metodo? A parer mio perché, avendo egli in mente il progetto didattico che risulta dall’analisi dell’insieme delle ariette e sapendo benissimo che cosa e come cercare nelle tragedie metastasiane – i ricordi della fanciullezza, si sa, sono il patrimonio più persistente della nostra memoria – non trovò né seppe comporre 11 versi che servissero altrettanto bene ad uno scopo che, certamente dalle sue dichiarazioni ma ancor più dall’analisi, appare essere stato preciso. Del resto sarebbe stata impresa ben ambiziosa quella di mettersi in competizione con i testi metastasiani per riuscire almeno ad eguagliarne il valore fonetico. Se si pensa infine al fatto che, in quanto poeta cesareo, il Metastasio aveva abitato a Vienna dal 1730 alla sua morte avvenuta nel 1782 e che in quella città – come, verosimilmente, già a Frohsdorf – il Vaccaj ne aveva trovato un ricordo ancora più vivo che in Italia (in gioventù, i cinquanta-sessantenni avevano potuto conoscerlo di persona), la scelta dei suoi versi per comporre ariette adatte all’insegnamento del canto italiano agli stranieri potrebbe assumere un ulteriore significato.

La prima e più generale domanda che ci si può porre oggi su Vaccaj maestro di canto, prima ancora che sulla sua posizione artistica rispetto al gusto musicale dell’epoca – del resto già indagata da altri studiosi – è quale possa essere stato il suo atteggiamento verso la tecnica vocale o, meglio, "le" tecniche vocali; i suoi anni, infatti, non sono soltanto quelli della rivoluzione del gusto musicale generale ma anche quelli dell’invenzione – forse ad opera di Domenico Donzelli 12, come suggerisce il Della Corte 13 – della cosiddetta "voix sombrée" la cui fisiologia è così magistralmente descritta dal Garçia pochi anni dopo 14. Accade infatti che la rivoluzione del gusto investa, come è inevitabile, tutta la prassi esecutiva disorientando innanzitutto quella vocale 15.

Le testimonianze che ci rimangono sulla tecnica vocale dell’epoca, lette attraverso le griglie fonetiche e fisiologiche oggi a noi disponibili, dicono molto più di quanto dai non addetti ai lavori si potrebbe supporre. Le precisissime figure relative alla posizione della lingua nel canto, che illustrano il testo del Bennati 16, per esempio, lasciano intendere che nel 1830 – anno della presentazione della sua memoria all’Accademia delle scienze di Parigi – i comportamenti fonatori si erano ormai differenziati a seconda delle classi vocali. Non è questa la sede per simili indagini, tuttavia per chi desiderasse farsi un’idea di prima mano del disorientamento denunciato dal Della Corte sono di facile accesso almeno tre fonti che, pur se datate alcuni anni dopo la pubblicazione del Metodo, si possono accettare come rappresentative del panorama vocale dell’epoca: la critica fatta da Alberto Mazzucato 17 al Metodo di canto di Garçia nel n. 14 dell’annata 1842 della Gazzetta musicale di Milano, riportata dal Della Corte stesso nel testo già citato 18 nonché le indicazioni relative alla tecnica vocale, presenti nel Traité del Garçia e nel Metodo completo di canto di Luigi Lablache 19.

Vaccaj sembra indifferente al travaglio in corso e non parla mai esplicitamente di tecnica vocale. Noi, tuttavia, dalla tipologia dei suoi allievi quale appare dalla Vita e dalla sua risposta al medico Francesco Bennati su riportata possiamo ricavare almeno quattro informazioni sul suo rapporto con i problemi della voce: che egli viveva – e, pare, anche bene – soprattutto insegnando a ricchi dilettanti; che sapeva come, nell’assegnare il dono della voce ai suoi figli, mamma Natura sia madre con taluni e matrigna con altri; che, essendo amico del Bennati, conosceva certamente il contenuto delle sue ricerche in quanto non è pensabile che questo foniatra ante litteram andasse in giro per il mondo, come si leggerà più avanti, esaminando le ugole di estranei senza prendere in osservazione quelle degli amici, massime quando questi si chiamavano Nicola Vaccaj; che, come dice il figlio, egli considerava le quindici lezioni del Metodo "come la prima parte di un metodo più esteso nel quale avrebbe tenuto presenti i diversi generi di voci". In ogni caso, come abbiamo letto, Vaccaj propone ai suoi allievi una rosa di ariette di impegno progressivo "perché non tutti avendo le medesime disposizioni, dovrà ognuno attenersi a quelle lezioni che sono nella natura de’ suoi mezzi".

Fedele a questo assunto egli mantiene le sue melodie in ambiti alquanto ridotti. Prendendo come versione di riferimento quella originale, per le voci medie si osserva che l’estensione complessiva di tutte le ariette è della dodicesima diminuita compresa fra il si2 e il fa4, ma che, tuttavia, questa estensione massima è presente soltanto in "Fra l’ombre un lampo solo", quella dedicata ai salti 20 di settima. Peraltro tanto nell’originale di Tolentino e nell’edizione londinese, dalla quale è ricavato l’esempio seguente, quanto nell’edizione Peters del Metodo 21 è chiaramente segnata un’Estensione limitata ad un’undicesima giusta.

La notazione musicale è inoltre seguita da un’istruzione molto significativa.

"Non solamente a comodità della maggior parte delle voci mi sono attenuto in tutto il corso del Metodo ad una limitata estensione; ma perché è anche miglior cosa l’esercitare in principio il centro della voce, sempre sufficiente per apprendere tutte le regole. Non è d’altronde difficile il trasportare, volendo, qualunque delle Lezioni o un tono più alta, o un tono più bassa" 22.

Ha poco senso, tuttavia, fare la geometria di queste composizioni didattiche in quanto un esame anche superficiale delle stesse lascia capire come la loro estensione sia funzionale di volta in volta al risultato tecnico o artistico che il Nostro intende ottenere.

Piuttosto è opportuno soffermarsi ad osservare l’esempio musicale su riprodotto. Come si vede, ad ogni nota è sovrapposto un segno di messa di voce; segno che non comparirà più in tutto il Metodo, ma che, messo a confronto con quelli che affollano le "Lezioni" del Concone 23 – di poco posteriori e certamente il documento didattico più esteso e preciso di questa prassi espressiva nel secolo scorso – ne sembrerebbero suggerire allo studioso moderno una lettura integrata. Cioè: se un didatta che pubblica qualche anno dopo fa ancora uso di un mezzo espressivo tipico dei secoli precedenti, a maggior ragione avrà senso ricercarne i luoghi e i modi dell’applicazione nel Metodo attraverso l’analisi comparata dei due monumenti, vista l’esplicita indicazione in un testo per altri versi così scarno, come vedremo, di segni espressivi.

Tanto considerato è ora importante la lettura della prefazione alla prima delle ariette, che recita:

"In questa prima lezione la divisione delle sillabe si stacca dall’ordinario onde dare, il più possibile, idea del modo di pronunciare cantando; come consumare con la vocale il valore di una o più note, ed unire la consonante con la sillaba seguente. Questo servirà di facilità anche per imparare il Canto legato, ciò che non si può ben insegnare se non che con la sola voce di un buon maestro".

Questa preoccupazione per la realizzazione delle sillabe nel canto, che avevamo già letto nel racconto del figlio, lo spinge ad inventare l’artificio descritto per esprimere graficamente il comportamento fonetico del cantante capace di cantare le sillabe perfettamente a tempo sulla nota senza martellare le consonanti. Eccolo 24:

 

Undici anni dopo tornerà a riproporselo il Garçia con risultati oggettivamente migliori e attribuendo, peraltro correttissimamente, a chi di dovere la paternità dell’idea. Egli infatti consiglierà 25:

"…conviene studiarsi di riunire ad ogni sillaba la consonante della sillaba seguente, pronunciando marcatamente la nuova serie di sillabe risultanti da tale processo. In questa guisa, son sempre le vocali che cominciano la sillaba, e le consonanti che la finiscono (1). Esempio:

" Deh parlate che forse tacendo – Dehp…arl…at…ech…ef…ors…et…ac…end…o "

" Men pietosi, più barbari siate, etc. – Menp…iet…os…ip…iub…arb…ar…is…iat…e ".

(Aria di Cimarosa nel Sacrifizio d’Abramo.)

(1) Nota: Il signor Michelot, nostro collega, fu il primo a consigliare quest’esercizio. Un tal metodo potrebbe far cadere nel difetto di raddoppiare tutte le consonanti: ma il rimedio ne è sempre agevole.

Tutto questo non toglie che il Vaccaj, almeno a mia conoscenza, tratti per primo del problema e ne proponga una soluzione.

Sarebbe imprudente attribuire alla frequentazione del Bennati tutta la sua consapevolezza fonetica del canto, consapevolezza, peraltro, quale persino oggi è raro incontrare; però il suo amico medico, oltre ad essere estremamente curioso di tutto ciò che avveniva nel campo di quella scienza non ancora inventata, che chiamiamo oggi "fonetica", possedeva le qualità da lui stesso dichiarate, condizionanti per fare ricerche sulla voce cantata: "1.° che l’osservatore fosse insieme fisiologo e conoscitor di musica: 2.° ch’egli si fosse particolarmente dedicato allo studio del canto: 3.° ch’ei fosse provveduto d’un organo che a lui concedesse d’intraprendere ad ogni istante delle osservazioni sopra di sé medesimo: 4.° finalmente che col mezzo delle sue relazioni, e de’ suoi viaggi gli fosse riescito facil cosa l’esaminare le persone che potevano porgergli argomento di studio" 26. I due erano quindi in grado di dialogare in materia di canto ed è ragionevole pensare che le capacità critiche del Vaccaj sugli aspetti formali della parola ne risultassero accresciute. La selezione operata fra i versi del Metastasio mostra chiaramente come le caratteristiche fonetiche della poesia fossero tra i suoi primi criteri di giudizio sul materiale letterario e mentre sarebbe rischioso far risalire soltanto a competenze di questo tipo le ragioni delle sue scelte poetiche riuscirebbe altrettanto difficile negarne l’applicazione intenzionale nella composizione delle sue ariette.

Considerata in termini fisici elementari, la struttura acustica dei fonemi ha il valore di modulazione del timbro laringeo, modulazione che in termini musicali corrisponde ad una sorta di strumentazione. Il valore timbrico della parola in poesia è perfettamente conosciuto in quanto è sempre stato sfruttato dai poeti, ma al momento in cui il testo poetico passa nelle mani del compositore esso acquista il valore estetico potenziale del materiale da costruzione nelle mani dell’architetto. E’ questa una delle cause principali del successo di alcuni scrittori di poesia per musica rispetto ad altri e Metastasio è fra questi.

Alla produzione di ogni fonema corrisponde un comportamento fonatorio diverso, al quale corrispondono a volta a volta certe facilità da sfruttare e certe difficoltà da superare; facilità e difficoltà che cambiano, però, a seconda del tipo di tecnica vocale adottata. Quanto ho appena detto potrebbe contraddire a quanto avevo scritto più su, che cioè Vaccaj sembra indifferente al travaglio in corso e non parla mai esplicitamente di tecnica vocale; bisognerebbe capire infatti che cosa egli intenda esattamente con le locuzioni già riferite: "Mi tenni per tutto il Metodo ad un’estensione limitata per comodo della maggior parte delle voci", "non tutti avendo le medesime disposizioni, dovrà ognuno attenersi a quelle lezioni che sono nella natura de’ suoi mezzi" e "al suo amico Bennati il quale gliene dimostrava l’opportunità, rispondeva: "Io mi riservo di ciò fare in altro libro ove dividerò […] le differenti qualità di voci"". Le tre locuzioni messe a confronto perdono definizione, si fanno ancora più sfumate e riesce difficile stabilire quanto si riferiscano alla generica attitudine al canto, alla classe vocale o alla tecnica vocale adottata. Come pure ho già detto, le precisissime figure del Bennati, corredate dalle sue spiegazioni e interpretate alla luce delle attuali conoscenze sul comportamento fonatorio, lasciano intravedere più di quanto di primo acchito possa sembrare.

Per fare un solo esempio prendiamo in considerazione la /v/ di "pavento il mar" alla settima battuta dell’esercizio sui salti di quinta (Lezione II), intonata sulla seconda strofa dell’aria di Mitrane "Più liete immagini", dal terzo atto del Demetrio 27:

Più liete immagini
Nell’alma aduna:
Già la Fortuna
Ti porge il crine;
E’ tempo alfine
Di respirar.
Avvezzo a vivere
Senza conforto,
Ancor nel porto
Paventi il mar.

(il testo del Metodo presenta lievi cambiamenti nei due ultimi versi: "In mezzo al porto / Pavento il mar").

Se si conserva come versione di riferimento quella per le voci medie, la sillaba /ve/ appare intonata su un re4 che, pur non essendo ancora una nota propriamente acuta, richiede già un certo impegno. La normale articolazione della /v/ si realizza con l’avvicinamento degli incisivi superiori al labbro inferiore. Tale tipo di occlusione richiede la lieve retrazione della mandibola, necessaria a portare l’interno del labbro sotto i denti. Lo spostamento è millimetrico e potrebbe sembrare irrisorio se non fosse che, come si sa dall’anatomia, la lunghezza delle corde vocali – unendo i campi di variabilità femminile e maschile, che in parte sono sovrapponibili – oscilla fra i 15 e i 25 mm circa e che la loro tensione è determinata anche dal lavoro dei muscoli del pavimento della bocca attraverso una breve catena di organi. Lo stesso arretramento determina pure una lieve riduzione del volume della faringe con effetti nettamente percepibili nel timbro delle vocali. Dato, però, che le figure del Bennati riproducono in modo più particolareggiato la posizione della lingua nei soprani, in questo specifico caso conviene considerare l’esempio musicale precedente come trasportato ad una terza superiore: ad un fa4 o ad un fa#4.

Dice dunque il nostro medico:

"Esaminando con attenzione i movimenti della lingua nel canto delle diverse note musicali, la si vedrà per le voci acute contrarsi sulla sua base, e poscia allargarsi; nell’uso poi più eminente del secondo registro nei soprani sfogati 28 innalzarsi co’ suoi lati e formare una cavità semiconica, l’apice della quale corrisponde alla estremità libera della lingua.

Nei soprani perfetti, cioè in quelli dotati d’una voce tonda, sonora e modulata, pressoché esclusivamente su d’un solo registro 29, la lingua prende una posizione tutt’affatto differente da quella che si osserva nei soprani a’ due registri distinti: in vece di annalzarsi colle sue parti laterali, e di formare una cavità semiconica, ella si eleva, si estende e si contrae verso la base presentando così una superficie tondeggiante a motivo dell’abbassamento dei suoi lembi".

Se sconfino nella storia della medicina divagando dall’oggetto specifico dell’articolo è perché mi pare che le descrizioni fisiologiche del Bennati e le figure annesse illuminino almeno in parte la situazione della tecnica vocale al tempo del Metodo. Il comportamento della lingua nell’articolazione è determinato dal cosiddetto "accordo pneumofonico", motivo per cui, muovendo dall’atlante di atteggiamenti della lingua, raffigurati dal nostro medico, sarebbe possibile ricostruire con buona approssimazione l’atlante dei comportamenti respiratori corrispondenti. Ma è lavoro tutto da fare. Quanto detto dovrebbe comunque spiegare perché le ariette del Vaccaj assumano funzione didattica diversa a seconda del comportamento fonatorio, spontaneo o meno, dell’allievo, dato che il maestro di canto si ritrovava, allora come sempre, ad affrontare condotte vocali diverse.

Venendo finalmente a quella sillaba /ve/, con la quale era incominciata la divagazione, osserveremo che intonarla con quella nota piuttosto acuta può essere interpretato come una facilitazione intenzionale per il caso in cui si canti alla maniera dei soprani sfogati – maniera che, fra l’altro, è verosimilmente alla radice della tecnica vocale a laringe abbassata – mentre nel caso dei soprani perfetti può essere interpretato come problemino tecnico proposto all’allieva – o all’allievo – della cui risoluzione farò grazia al Lettore.

Naturalmente le considerazioni fonetiche sulla poesia del Metastasio non bastano a spiegare la scelta poetica del Vaccaj ed occorre approfondire ulteriormente l’analisi del Metodo. Le ventidue ariette sono formalmente rivolte ad affrontare singole difficoltà che si possono così raggruppare: intervalli (otto), sincope (una), agilità (due), abbellimenti (sette), portamento (due), recitativo (una). Conclude la serie un’arietta di riepilogo. Nonostante la diversità degli intenti, se si ci sofferma ad osservare il rapporto dei versi con le musiche si scopre un filo che le collega tutte: ognuna delle difficoltà tecniche è considerata come tratto musicale corrispondente ad una figura retorica, ad un’immagine o ad un affetto ed è tradotta in musica facendole corrispondere un testo poetico che ne possa essere rappresentato. Così la scala è vista come climax, la dissonanza delle settime come bagliore di un lampo, il modo sincopato come contrasto amoroso e via di questo passo; salvo un aggiornamento del linguaggio musicale, vi riconosciamo ancora, cioè, un’espressione musicale degli affetti di eredità barocca. Non è strano perché i moduli fondamentali della manifestazione dei sentimenti in musica si ripresentano come topici ricorrenti dal gregoriano ai contemporanei. Inoltre, senza doversi impegnare in ricerche ed analisi, basta tornare a riaprire i monumentali trattati del Garçia e del Lablache – che, abbiamo già osservato, sono persino posteriori di qualche anno al Metodo – per ritrovarvi ancora insegnamenti teorici e pratici sull’argomento.

Garçia:

"Qualora l’accento non fosse sufficiente per colorare la melodia, in alcune parti o nell’insieme, si ricorrerà agli ornamenti (fioriture), che a loro volta riceveranno le sfumature descritte nei precedenti capitoli. Quasi tutta la musica italiana, composta prima del secolo XIX, rientra in questo caso. Gli autori, abbozzando le loro idee, contavano sul fatto che il talento del cantante vi avrebbe aggiunto l’accento e altri elementi. Si tratta di brani di vario genere che, in ragione della loro natura, sono affidati alla libera e sapiente ispirazione dell’esecutore; tali sono le variazioni, i rondò, le polacche, ecc.

Peraltro, prima di trattare le regole relative agli ornamenti, affermiamo che l’allievo, una volta divenuto artista, deve impiegarli a proposito e con sobrietà. Aggiungiamo che nel momento in cui si affrontano questi esercizi è indispensabile conoscere l’armonia.

L’allievo deve considerare gli ornamenti non per se stessi ma in rapporto al sentimento che devono esprimere, poiché non è possibile stabilire a priori delle categorie di fioriture adatte al bisogno dei sentimenti. Il carattere del sentimento non dipenderà solamente dalla scelta delle note e dalla forma dei passi, ma anche dall’espressione che il cantante saprà infondervi. Per scegliere le fioriture è necessario analizzare costantemente l’intenzione particolare delle parole e della musica. Le fioriture che dipingessero un sentimento grandioso non sarebbero indicate, per esempio, nell’aria di Rosina, ecc. Un semplice disaccordo fra il movimento del pezzo e quello delle fioriture sarebbe sufficiente per commettere un errore. (p.109)" 30

Per Lablache

"Gli ornamenti debbon esser sempre analoghi al carattere del pezzo. […] Null’altro […] rimane a tentarsi che porger qui, su d’un picciol numero di frasi semplici, alcuni ornamenti i quali per la varietà de’ loro colori, possono utilmente applicarsi a melodie di caratteri fra loro differenti 31"

e, dopo aver presentato quattro frasi melodiche di due battute l’una, ne propone la versione abbellita secondo i "caratteri" da lui definiti "leggero", "tenero", "appassionato", "brillante", "elegante", "grazioso", "doloroso" e "impetuoso".

Per parte sua il Vaccaj riduce i discorsi al minimo e traduce gli stessi principi didattici ed espressivi in ariette andando a scavarsi il materiale poetico necessario nell’opera del Metastasio; e dico "scavarsi" perché egli passa in rassegna più di millequattrocento arie andando poi a sceglierne sovente le seconda strofa. Ciò che importa a noi è che questo fatto ci dà la griglia di lettura più importante del Metodo. Egli, come detto più su, identifica in ognuno degli elementi del canto che intende affrontare come problema tecnico uno dei topici dell’espressività vocale, cerca e trova dei versi che lo esprimano e vi compone su l’arietta-esercizio. E’ facile verificare che per ognuna di esse ne esisterebbero altre di metrica uguale, ma procedendo alla sostituzione l’arietta perde significato rappresentativo e si capisce più a fondo il senso della scelta.

Al primo approccio con quei versi gli allievi rimangono quasi sempre interdetti. Peraltro è comprensibile che, a chi non ha esperienza di musica pre-romantica, i testi delle arie di metafora, soprattutto se avulsi dal contesto di riferimento, possano apparire vagamente surreali. Caso tipico è quello della prima arietta, dedicata alla scala. Anche i versi di questa sono tratti dal Demetrio e costituiscono la prima strofa dell’aria di Cleonice dalla tredicesima scena del secondo atto. Ecco la situazione teatrale.

Cleonice, regina di Seleucia, ama riamata Alceste, guerriero che tutti – compreso lo stesso Alceste – credono di origini pastorali. In realtà egli è l’erede del regno di Siria, dal cui trono suo padre era stato scacciato. La ragione di stato obbliga ora Cleonice a scegliersi un marito di nobile stirpe ed essa ha appena dovuto chiedere ad Alceste di rinunciare a lei e di rifarsi una vita. Per diverse e segrete ragioni Fenicio suo vassallo sostiene la sua decisione mentre Barsene sua confidente ne la dissuade. La scena si conclude come segue:

Fenicio  Vorrei renderti chiaro
        L’inganno tuo.
Barsene               Di tua costanza il vanto
        Vorrei serbarti.
Cleonice               E m’uccidete intanto.
        Egualmente il mio core
        Il proprio male ed il rimedio aborre;
        E m’affretta il morir chi mi soccorre.

Manca sollecita
Più dell’usato,
Ancor che s’agiti
Con lieve fiato,
Face che palpita
Presso al morir.
Se consolarmi
Voi non potete,
Perché turbarmi,
Perché volete
La forza accrescere
Del mio martir?
(parte)

A dare senso alla metafora della "Face che palpita / Presso al morir" è dunque l’ultimo verso del recitativo: "E m’affretta il morir chi mi soccorre". Vaccaj, il quale per incominciare la serie degli esercizi sugli intervalli ha bisogno di una situazione teatrale adatta ad essere rappresentata in musica da una melodia che si svolga per gradi congiunti, ravvisa nei versi "Manca sollecita / Più dell’usato" e "Ancor che s’agiti / Con lieve fiato" una climax ed una anticlimax traducendole in una serie di scale ascendenti e discendenti, delle quali accresce la forza retorica riprendendole in progressione come per anadiplosi.

Volendo andare in cerca, a questo punto, di indicazioni espressive che forniscano ulteriori lumi all’analisi interpretativa, ci si scontra con un problema di critica testuale: le due edizioni correnti, la Ricordi e la Peters, sono concordi nel riportare un certo ristretto numero di indicazioni dinamiche, delle quali parleremo fra poco. Gli originali di Tolentino, l’edizione londinese, che corrisponde loro abbastanza 32 e la Zedde ne sono invece estremamente scarsi, anzi, il più delle volte non ne dànno alcuna. Del resto questa sobrietà di segni espressivi è un tratto caratteristico della scrittura musicale del Vaccaj e, più che nelle 12 ariette per camera per l’insegnamento del bel canto italiano 33, nelle quali egli appare meno reticente ad esprimere le sue intenzioni di autore, la si osserva negli autografi esistenti presso la Biblioteca Filelfica, nei quali, alla moda antica, sovente non appare neppure un’indicazione di movimento. Una spiegazione potrebbe essere che egli intenda, appunto alla moda antica, lasciare all’esecutore – in questo caso al maestro – la più parte della responsabilità interpretativa delle musiche e che alla base dello studio del Metodo non possa rimanere che l’analisi comparata del testo musicale con quello poetico. Del resto, le discrepanze fra il manoscritto originale e le edizioni attualmente in commercio non si fermano qui; fra quelle mascroscopiche ci sono, per esempio, le indicazioni di movimento di tre ariette, ma il fatto che le edizioni a stampa siano tra loro coerenti mi fa ipotizzare che, essendo stato il Metodo "pubblicato prima per conto del Vaccaj poi, presente l’autore, dal Traupenas a Parigi ed acquistato più tardi dal Boosy (sic) in Inghilterra e da Ricordi in Italia 34", aggiunte e cambiamenti siano stati fatti per motivi commerciali su richiesta dagli editori. In questa sede decido di comportarmi come se l’ipotesi fosse valida e di muovermi di conseguenza.

Le indicazioni poste a suggerire con quale intenzione espressiva l’arietta "Manca sollecita" abbia da essere cantata – cioè se disperata, dolorosa, rassegnata, ecc. – sono pochissime ma significative: il movimento adagio e quattro segni di p, rinf., f e p (nell’originale soltanto il rinf. e il p finale), posti come suggerimenti interpretativi per chi debba leggere fra le parole e le note prima ancora che come indicazioni dinamiche. L’esercizio può dunque essere a volta a volta usato ai soli fini tecnici vocali o per imparare ad esprimere il contrasto degli affetti nel breve spazio di sedici battute.

Se dobbiamo giudicare dal numero e dalla diversità dei segni dinamici, l’arietta "Manca sollecita" è quella a cui il Vaccaj attribuirebbe maggiore intensità drammatica. Sola a farle compagnia, sia pure con due sole indicazioni dinamiche, è quella che, dipingendo con ampi salti di ottava l’immagine grandiosa di "Quell’onda che ruina" 35, porta dal p iniziale ad un f segnato nel punto più alto della melodia in cui la parola "balza" è ripetuta tre volte; le altre presentano quasi tutte una sola indicazione posta sempre all’inizio della sola parte del pianoforte. Le indicazioni espressive per la voce si limitano al solo segno >, posto in luoghi significativi dal punto di vista rappresentativo (lo abbiamo già visto, per esempio, sulla parola "pavento" dell’arietta "Avvezzo a vivere senza conforto") o per accentuare determinate sillabe.

All’interno del discorso di analisi si pone il problema costituito dalle pause di cui sono cosparse le ariette. Ad un esame superficiale esse paiono poste calcolatamente nel luogo in cui si trovano per dare all’allievo modo e tempo di prendere fiato. Caso tipico sono le pause poste al termine di ogni inciso di due battute nell’arietta di "Introduzione alle volate":

Vi sono però altri casi nei quali la comparsa di pause di semicroma, stante il luogo in cui esse sono collocate, sembra avere piuttosto funzione espressiva così come, di converso, l’assenza di pause in luoghi nei quali le esigenze respiratorie lo richiederebbero pare voler richiedere continuità di recitazione. L’arietta "Bella prova è d’alma forte" è un esempio evidente di questo procedimento in quanto le frasi poetiche sono cantate due volte e nella ripetizione si ripresentano senza ripetizioni od omissioni.

Nessun verso, per quanto riguarda la continuità del discorso, si ripresenta allo stesso modo. Nella prima esposizione (battute 1-11) i primi due versi sono scritti senza interruzioni mentre la pausa di semicroma alla battuta 5, se fosse posta soltanto a suggerire un respiro, sarebbe del tutto superflua in quanto il cantante, quand’anche fosse giunto fin qui senza prendere fiato, vi sarebbe costretto ora. Alla battuta 8 ritroviamo una pausa uguale a dividere il verso "una colpa... che non ha" in modo apparentemente innaturale sia dal punto di vista logico che da quello respiratorio. Nella ripetizione i versi si ripresentano separati l’uno dall’altro dalla una pausa (battute 11, 13 e 15) mentre le parole "una colpa" e "che non ha" questa volta sono unite. E’ evidente che avrebbe poco senso tentare di spiegare tutte queste pause come indicazioni di luoghi di respiro. Se invece si interpretano le pause come una sorta di note di regìa, poste a suggerire cambiamenti di intenzione espressiva, tutto diventa logico. L’enunciato dei versi è talmente chiaro anche per un allievo da non abbisognare di spiegazioni (il che non toglie che conoscere il contesto drammatico sarebbe comunque utile 36). Il Vaccaj, abbisognando di versi per la costruzione di un esercizio sui salti di sesta, dal cui impiego può effettivamente derivare un’impressione di grandiosità, sceglie un testo esprimente grandezza morale. Il verso "Bella prova ecc." implica certamente modi rappresentativi, teatrali e musicali, che esprimano la nobiltà, l’eroicità, ecc. del concetto e della situazione, ma quello seguente sottintende invece l’espressione della sofferenza per "l’ingiusta pena" mentre la pausa che lo precede sembra posta a metterlo in evidenza dando contemporaneamente lo stacco necessario al cambio di espressione. La pausa che separa poi le parole "che non ha" pare posta a suggerirne e facilitarne la sottolineatura. Nella ripetizione i concetti vengono retoricamente amplificati ampliando l’ambito della melodia dei singoli versi che sono tutti separati da una pausa di semicroma. Le parole "d’una colpa che non ha" questa volta sono unite mentre l’innocenza della "alma forte", invece che con lo stacco costituito dalla pausa, è sottolineata intonando la parola "che" con un accenno di melisma costituito da due crome legate e all’intervallo di sesta, argomento dell’esercizio.

L’impiego delle pause nelle ariette per ottenere effetti di espressività teatrale mi pare importante in quanto corrisponde all’uso delle stesse nel recitativo fin dalle origini di questo stile di canto. La spiegazione di questo procedimento compositivo compare nella prima opera in musica "per recitar cantando" a noi rimasta: la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri37. Negli Avvertimenti particolari per chi cantarà recitando: & per chi suonarà, Alessandro Guidotti dice: "Il segno .S. significa incoronata, la qual serve per pigliar fiato, & dar’un poco di tempo à fare qualche motivo". Poco prima, nell’epistola A’ Lettori, aveva richiesto che "il cantante […] esprima bene le parole, che siano intese, & le accompagni con gesti, & motivi non solamente di mani, ma di passi ancora che sono aiuti molto efficaci à muovere l’affetto" dicendo inoltre che "il passar da uno affetto all’altro contrario, come dal mesto all’allegro, dal feroce al mite, e simili, commuove grandamente". Queste parole non solo dànno ragione delle innumerevoli "incoronate" presenti nella Rappresentatione e, per lo più, notate prima di una pausa, ma offrono anche una chiave di lettura per le pause disseminate nei recitativi dei secoli seguenti. E’ facile verificare che, almeno in quelli ben costruiti, ogni pausa suggerisce sempre uno stacco teatrale e, implicitamente, la possibilità di cambiare la velocità di recitazione onde esprimere al meglio il particolare affetto di quelle parole. Del resto ancora Garçia e Lablache, meno avari di parole del Vaccaj, spiegano:

Garçia,

"Il recitativo è dunque una declamazione musicale libera. Se ne distinguono due specie: il recitativo parlato e il recitativo strumentale. In entrambi i casi esso si basa sulla prosodia grammaticale e ne segue rigorosamente le leggi. Pertanto esso subordina il valore delle note, quello delle pause, l’andamento della recitazione e gli accenti alla lunghezza o alla brevità prosodica delle sillabe, alla punteggiatura, cioè al movimento del discorso. L’applicazione di questa norma è necessaria e implica che l’esecutore conosca perfettamente la prosodia della lingua in cui canta e sia consapevole di ciò che dice. In tal modo non rischia di collocare male gli accenti e di snaturare il senso delle parole con false inflessioni o pause poste fuori luogo". 38

"Alle regole che riguardano la prosodia aggiungeremo le seguenti osservazioni. I valori scritti delle note e delle pause, essendo determinati dalla necessità di dividere regolarmente la misura, sono in realtà solamente un’indicazione del percorso che deve seguire il pensiero. Il vero movimento sarà dettato dal senso dei versi e da quello delle frasi musicali". 39

Lablache,

"Il migliore Recitativo si è quello che più s’avvicina ad una buona declamazione. Siccome però sarebbe sommamente difficile il notar con esattezza l’alternativa di velocità e lentezza richieste dal movimento delle passioni, perciò i Compositori non fan che indicare il terminar delle frasi col mezzo di cadenze, e le sillabe lunghe delle parole mediante note situate sul tempo forte della battuta, o colla parte forte dei tempi, lasciando del resto al retto criterio dell’esecutore la cura di soffermarsi più o meno su ciascuna di esse note 41".

E’ superfluo osservare che le citazioni fatte si riferivano al recitativo e non alle arie; se, tuttavia, uno stesso tipo di scrittura, posto in un contesto diverso riesce ad aumentare la quantità di informazione da esso trasmessa, è ragionevole pensare che la sua applicazione sia corretta.

Quanto detto finora rimanda all’esame della lezione dedicata al recitativo. L’esercizio con la sua breve prefazione è un chiaro esempio di questo stile, ma non meriterebbe un’attenzione diversa da quella data fin qui alle singole ariette se esso non fosse uno dei documenti più chiari sull’uso dell’appoggiatura nel canto in generale e nel recitativo in particolare. Dice il Vaccaj:

"Nel recitativo è necessario una sillabazione distinta e decisa, e senza una perfetta accentazione non se ne potrà ottenere un buon effetto. Allorché s’incontrano due note simili nel mezzo, quella ove cade l’accento della parola dev’essere intieramente convertita in appoggiatura della seguente: il che per più chiarezza viene indicato con una A sopra la nota dell’accento".

Peraltro all’appoggiatura egli aveva già dedicato una lezione intonando le strofe di una delle arie di Venere, "Senza l’amabile Dio di Citera", tratta dalla festa teatrale L’asilo d’Amore. La prefazione all’arietta diceva:

"L’Appoggiatura è il miglior ornamento del canto, il di cui effetto dipende dal darle il suo giusto valore. Non sarà però difetto l’accrescerlo, lo sarebbe il diminuirlo".

Tornando al recitativo, abbiamo sentito da Garçia e Lablache quanta parte di esso risieda non scritta fra le note e le parole. I due didatti non hanno bisogno di specificare, in quanto ovvio per i loro contemporanei, che la melodia effettiva dei recitativi deve essere diversa da quella notata e trattano altrove dell’appoggiatura. L’ondata della Werktreue, formatasi agli inizi del secolo più dai cambiamenti del gusto che da consapevolezze critiche, è passata come una crociata iconoclasta su tutto ciò che non fosse scritto in forma di note nelle partiture (e stendiamo un pietoso velo sui nomi dei pur grandi che ne portano le maggiori responsabilità) confondendo il significato formale con quello sostanziale dei testi. Una delle conseguenze è stata la morte del recitativo. Quelle insipide note di uguale intonazione che siamo ormai abituati a sentire in corrispondenza delle finali piane delle parole italiane, prima di esser cantate dovrebbero infatti essere valutate per stabilire se cantarle come sono o trasformarle in appoggiature. Qualcuno lo sa e cerca di farlo; i più, invece, no. Accade così di sentire in celebrate incisioni discografiche – sono soprattutto quelle di Mozart a farne le spese – che nella stessa scena un cantante esegua le note come sono scritte mentre l’altro realizza le appoggiature (dal che si potrebbe anche desumere che il direttore o è sordo o non sa leggere).

Un problema musicale, prima che musicologico, è quello di capire quale fosse effettivamente la prassi vocale nell’epoca in cui la vita del recitativo sta volgendo al termine. Quando, nel ’51, Verdi scriverà Rigoletto e, nel terzo atto, vorrà rappresentare il diverso modo di esprimersi del buffone a seconda che egli parli da padre o da mandante dell’uccisione del Duca, per indicare le sue intenzioni musicali userà due indicazioni specifiche. Per quanto il passo sia notissimo vale la pena di riprenderlo in esame. Rigoletto ordina alla figlia di fuggire e la scena porta l’indicazione "Recitativo" con tutto ciò che l’indicazione implica in termini di prassi:

Gilda parte, "Rigoletto va dietro la casa, e ritorna con Sparafucile, contandogli le monete" 42. Il tono delle sue parole non è più quello concitato ed accorato di quando parlava come padre, ma è quello duro del mandante d’un’uccisione.

Verdi, che conosce le convenzioni in uso, sa di rischiare che baritono e basso applichino le appoggiature anche in questo luogo togliendo drammaticità al dialogo e li previene: "Questo recitativo dovrà essere detto senza le solite appoggiature".

Dicevo che si tratta di un problema musicale prima che musicologico perché la coerenza fra i codici di comunicazione compositivo ed esecutivo è uno dei fattori principali di comprensibilità – e quindi di godibilità – delle musiche eseguite. La "noia del recitativo" che deriva dalle moderne esecuzioni ne è un esempio tipico e, per ritrovare la giusta chiave di lettura dei messaggi originali, dal Metodo del Vaccaj ci si sarebbe aspettati parecchio soprattutto perché chi scrive è un compositore. In realtà se ne può ottenere qualche suggerimento soltanto con un attento lavoro di analisi, che stabilisca il criterio col quale in tutto il recitativo poche parole piane siano state escluse dell’applicazione generalizzata dell’appoggiatura. Egli, cioè, più che condividere la pratica articolata, spiegata dal Garçia 43 sembrerebbe insegnare quella un po’ semplicistica, enunciata dal Duprez e dalla quale Verdi, diciotto anni dopo come abbiamo visto, pare ormai costretto premunirsi:

"Soyez sobre d’ornements, le récit n’en exige pas; l’appogiature cependant sur les terminaisons féminine est presque de rigueur, mais il y a des exceptions, et, comme les compositeurs ne les écrivent pas toujours, sachez les placer avec discernement" 44.

Pare di capire, cioè, che questo abbellimento, cardine dell’espressività vocale nei tempi passati, sta ormai diventando estraneo al linguaggio comune; e non importa se ci si riferisce alle arie o ai recitativi. Il mutamento in corso appare evidente nelle parole di Lablache:

Sovente scrivonsi le Appoggiature, in grandi note ordinarie con il lor determinato valore. Nello stato in cui trovasi l’odierna musica, dovrebbero i Compositori adottar tutti un tal modo d’indicazione, come si è pur accennato nella Nota (19).

(19) Gli antichi Maestri debbono aver sicuramente adottato l’uso delle piccole note onde toglier all’occhio la confusione ed il dubbio che la presenza nei tempi forti, d’una nota estranea all’accordo produr poteva a danno dell’armonia. Ma oggidì che si è introdotta una moltitudine di tali note nella melodia, dovrebber gli Autori scrivere le appoggiature anch’esse in note ordinarie, indicandone il valore da essi preteso: così eviterebbero d’esser sovente interpretati da esecutori privi d’un retto musical sentimento 45.

Mentre per mettere in relazione l’appoggiatura e l’impiego di questa nel recitativo è stato necessario tornare indietro di qualche pagina, i più degli altri abbellimenti sono immediatamente preceduti da una lezione di introduzione, nella quale l’esecuzione della fioritura è realizzata per esteso. Acciaccatura, mordente, gruppetto e trillo richiedono una tecnica vocale più agguerrita di quella richiesta dall’appoggiatura, ma il loro interesse interpretativo è meno evidente; la prassi corrente, infatti, riduce la lettura degli abbellimenti alla decodificazione di segni considerati unicamente come ricami di note sui suoni veri della melodia. Il significato psicoacustico degli abbellimenti è invece quello di modulazione in frequenza di singoli suoni della melodia, i quali, essendone così messi in evidenza, vengono percepiti come accentati. Questo tipo di accentuazione musicale corrisponde, mutatis mutandis, all’accentuazione melodica della voce parlata; l’analisi degli abbellimenti consente quindi di ottenere informazioni – o almeno indizi – sul fraseggio sottinteso dal compositore. Le lezioni del Vaccaj sugli abbellimenti, però, se per un verso aiutano a risolvere problemi di prassi vocale dell’epoca, per l’altro ne lasciano altri irrisolti o ne pongono di nuovi; così, in una cultura musicale come la nostra, ancora recalcitrante ad arricchirsi di mezzi espressivi diversi da quelli abituali, la loro utilità rimane limitata allo studio dell’agilità.

Mentre gli abbellimenti di agilità riescono, bene o male, a sopportare l’insulto di esecuzioni puramente tecniche, non altrettanto si può dire per il portamento, mezzo espressivo di grande efficacia, il cui impiego non è di solito segnato ma lasciato al giudizio dell’esecutore. Avviene così che, col cambiare dell’espressività nel tempo, si perda traccia dei modi e dei luoghi in cui l’abbellimento era usato. Gli altri trattatisti, almeno a mia conoscenza, si limitano ai suoi aspetti tecnici e propongono esercizi utilissimi dal punto di vista vocale, ma ben poco istruttivi da quello musicale: i soliti Garçia 46 e Lablache47, ma anche i più tardi Lamperti 48, Marchesi 49 e, in Francia, Duprez 50 e Faure 51. Vaccaj, invece, intonando le sue lezioni su testi poetici ci lascia precise chiavi di lettura; l’analisi comparata dei testi letterari e musicali delle due ariette mirate ad insegnarne l’esecuzione, infatti, permette di trarne suggerimenti utili all’applicazione del portamento in generale.

Le ventidue ariette del Metodo sono stampate in ordine logico musicale piuttosto che di difficoltà vocale. "Manca sollecita", per esempio, anche se collocata per prima in quanto costruita sugli intervalli della scala, non è la più facile di tutte; non sono di comoda esecuzione per un principiante, infatti, le prime sei frasi lunghe una sesta e tanto meno le due tirate conclusive, estese ad una decima. E’ decisamente più agevole, per esempio, "Avvezzo a vivere senza conforto", che pure è quarta in ordine di apparizione, i cui salti di quinta sono di comoda intonazione mentre il fiato è facilitato dalla concisione delle frasi, intervallate da pause della durata di un movimento. Se poi ci si chiedesse se davvero il Vaccaj pensasse che, per insegnare a leggere la musica a chi non amava solfeggiare, bastasse una sola lezione per intervallo, la risposta sarebbe ovviamente: "No". Mi guardo dal pretendere di avere scoperto i metodi didattici del Vaccaj; è certo, però, che impiegate come schema mnemonico allo stesso modo in cui Guido d’Arezzo usava l’inno di S. Giovanni per insegnare ad intonare le note, le lezioni sugli intervalli funzionano perfettamente.

L’applicazione pratica del criterio seguito dichiaratamente nella composizione delle lezioni, di affrontare separatamente "le grazie che appartengono al canto", è facilitata ulteriormente dal fatto che l’architettura delle ariette, organizzate secondo il principio della frase quadrata, consente di smontare e riunire gli incisi e le frasi nei modi più opportuni per isolare i problemi vocali e risolverli ad uno ad uno. Sarà pur vero che "l’accademica quadratura strofica e gli sviluppi convenzionali […] compromettono (non sempre) le squisite frasi di questo melodista nato 52", ma è altrettanto vero che è proprio la loro concezione modulare a consentire questo procedimento didattico senza che la godibilità della musica venga meno.

Abbiamo visto che, come egli stesso specifica, è possibile studiare le ariette ad altezza variabile "non essendo difficile trasportare, quando si voglia, qualunque lezione un tono o più alta o più bassa". Allo stesso modo è possibile cantarle a tempi allargati quando ciò sia opportuno. Un’arietta come "Delira dubbiosa", per esempio, stante la brevità delle sue frasi, della ridotta estensione di ognuna di esse e delle pause interposte, è particolarmente adatta per mettere a punto il coordinamento respiratorio; è quindi utile studiarla rallentata quanto occorre e non importa se l’andantino originale rappresenta meglio di un adagio il dubbio di Scipione, conteso tra Fortuna e Costanza 53.

Si potrebbe parlare a lungo della flessibilità d’impiego delle musiche del Metodo, ma questo non ha da essere un trattato di didattica del canto; quanto detto finora, tuttavia, può forse bastare a spiegare perché esso sia così universale e perché possa essere impiegato con pari soddisfazione tanto da chi insegna a cantare "Casta Diva" quanto da chi insegna ad augurare la "mala Pasqua".

 

 

 

NOTE

 

 

1 Questo è il titolo che compare sul frontespizio del manoscritto del Metodo, conservato alla Biblioteca Comunale Filelfica di Tolentino, il quale porta in alto, a destra, l’indicazione "Originale", così come sull’edizione a stampa di Londra, fatta per l’Autore stesso. A tale formulazione corrisponde bene quella usata da A. Biaggi alla pag. xiv della prefazione alla Vita di Nicola Vaccaj scritta dal figlio Giulio (cfr nota 2): Metodo pratico di canto italiano per camera, diviso in quindici lezioni. Nel testo il titolo compare, citato passim sia da Vaccaj-padre che da Vaccaj-figlio, semplicemente come Metodo pratico. L’ultima edizione Ricordi (revisione critico-tecnica di E. Battaglia, Milano, 1990) lo intitola Metodo pratico di canto. Nelle ristampe del Metodo, immediatamente precedenti quella citata il titolo compariva come Metodo pratico di canto italiano da camera. Nell’edizione Peters (Frankfurt - London - New York, 1914) il titolo è tradotto in tedesco e in inglese come segue: Praktische Schule des italienischen Gesanges von N. VaccaiPractical School of the Italian Method of Singing by N. Vaccai. La ricerca effettuata sul sito Internet (http://www.iccu.sbn.it) dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico (ICCU) delle Biblioteche Italiane e per le Informazioni Bibliografiche ne offre altre versioni ancora; e.g.: Metodo pratico di canto italiano diviso in quindici lezioni o siano solfeggi progressivi et elementari sopra parole di Metastasio / Nicola Vaccaj - Napoli: Girard, Bernard & C. Girard, Bernardo. E’ però evidente che questo tipo di indagine esula dagli intenti del presente lavoro.

2 Vaccaj N., Metodo pratico di canto italiano per camera diviso in 15 lezioni, London, Published by Author, s.d., p. 2.

3 Vaccaj G., Vita di Nicola Vaccaj scritta dal figlio Giulio con prefazione del Prof. A. Biaggi, Bologna, Zanichelli, 1882.

4 Presso Wiener Neustadt, cittadina situata a una settantina di chilometri a sud di Vienna.

5 Vaccaj G., op. cit., pag. 134.

6 Ivi, pag. 147.

7 Bennati, Francesco, medico (Mantova, 1798 - Parigi, 1834). Studiò le funzioni dell’apparato vocale in rapporto col canto. Il risultato dei suoi studi fu pubblicato postumo col titolo: Studii fisiologici e patologici sugli organi della voce umana di F. Bennati dottore in medicina e membro di molte società scientifiche. Opera premiata dalla Reale Accademia delle Scienze Fisico-Chimiche di Parigi. Prima versione italiana con note. Milano, F. Sambrunico-Vismara, 1834. La prima delle memorie che compongono l’opera si intitola: Del meccanismo della Voce Umana nell’atto del Canto. Una nota del traduttore, C.B., ci informa che il Bennati "Nacque in Mantova e per uno sgraziato accidente cessò di vivere nel mese di Marzo del 1834 in Parigi, nella fresca età di trentacinque anni".

8 Brunelli B., a cura di, Tutte le opere di Pietro Metastasio, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori, 1953, pp. 1383-1512.

9 Secondo quanto si ricava dal D.E.U.M.M. (Basso A., a cura di, Torino, UTET, 1988), la prima versione è del 1832.

10 Vaccaj G., op. cit., p. 5.

11 Ivi, p. 141: "[Di ariette] Fin che rimase a Londra continuò sempre a pubblicarne e ne compose grandissimo numero, notevoli tutte per la freschezza della melodia. – Poesie non gli mancavano chè molte gliene venivano offerte, molte ne componeva egli stesso non avendo mai rinunziato al verseggiare cui fin da giovinetto aveva avuto così gran passione".

12 Donzelli, Domenico, tenore (Bergamo, 1790 - Bologna, 1873). Esordì nel 1808 e abbandonò le scene nel 1844.

13 Della Corte A., Vicende degli stili del canto dal tempo di Gluck al ‘900, in Della Corte, Andrea, Canto e bel canto, Torino, G.B. Paravia, 1933, pp. 244.

14 Garçia M., Traité complet de l’art du chant (2 parti, Parigi, 1840; 3a parte, ivi, 1851), trad. it., Traité complet de l’art du chant en deux parties – Trattato completo dell'arte del canto in due parti, a cura di Stefano Ginevra, Torino, Zedde, 2000.

15 Della Corte A., op. cit., pp 252-256.

16 Bennati F., Studii fisiologici e patologici sugli organi della voce umana di F. Bennati dottore in medicina e membro di molte società scientifiche. Opera premiata dalla Reale Accademia delle Scienze Fisico-Chimiche di Parigi. Prima versione italiana con note. Milano, F. Sambrunico-Vismara, 1834, tavola.

17 Mazzucato, Alberto, compositore e direttore d’orchestra (Udine, 1813-Milano, 1877). Insegnò canto, composizione, storia ed estetica musicale e infine anche strumentazione al Conservatorio di Milano del quale fu direttore dal 1872 fino alla morte. Redattore e poi direttore della "Gazzetta Musicale di Milano" fu anche maestro direttore e concertatore dell’orchestra della Scala.

18 Della Corte A., op. cit., pp 252-256.

19 Lablache L. Metodo completo di canto, Milano, Ricordi, 1842 (ed. anastatica, Milano, Ricordi, 1997).

20 L’ultima edizione Ricordi del Metodo, usa il termine "intervalli", ma quelle precedenti, peraltro coerentemente con l’originale di Tolentino e l’edizione di Londra, impiegavano il termine "salti" allo stesso modo dell’edizione Peters che è trilingue e scrive a volta a volta, per esempio: "Septimensprünge", "Sauts de Septième" e "Skips of Sevenths".

21 Vaccai N., Praktische Schule des italienisches Gesanges, Frankfurt - London - New York, C.F. Peters, 1914.

22 Parole identiche nel manoscritto e nell’edizione londinese.

23 Concone, Paolo Giuseppe Gioacchino, maestro di canto, compositore e organista (Torino, 1801-ivi, 1861). A Parigi, dove, dal ’37 al ’48 svolse l’insegnamento del canto e del pianoforte, pubblicò per la prima volta alcune raccolte di solfeggi cantati e vocalizzi: 50 lezioni pel medium della voce op. 9; 25 lezioni e vocalizzi pel medium della voce op. 10; Exercices pour la voix avec accomp.t de Piano op. 11; 15 vocalizzi per S. o Ms op. 12; 25 lezioni per 2 v. di donna op. 13; 40 lezioni per A. op. 17, 40 lezioni per B. o Bar. op 17. La sua opera didattica, pubblicata nel secolo scorso a Parigi da Richault, a Mayenne da Schott, a Braunschweig da Litolff, a Lipsia da Peters e a Torino da Giudici & Strada, è oggi quasi tutta disponibile nelle edizioni Ricordi.

24 Gli esempi musicali sono ripresi tutti dall’edizione Peters, sia perché testo di facile reperimento per eventuali verifiche e sia perché l’edizione Ricordi dichiara apertamente delle varianti rispetto all’originale.

25 Garçia M., op. cit., parte seconda, p. 7. Per maggiore evidenza ad uso di lettori italiani e per brevità riporto quì l’esempio italiano proposto dalla versione Ricordi del Traité, omettendo invece l’esempio francese "Mon fils, tu ne l’es plus. – Monf…ilst…un…el…espl…us", ecc. (Recitativo nell’Edipo), che lo segue.

26 Bennati F., op. cit., p. 4.

27 In questo esempio, come in quelli che seguono, sia nel testo che in nota i versi intonati dal Vaccaj sono stampati in carattere tondo mentre il resto dell’aria del Metastasio appare in corsivo.

28 Bennati F., op. cit. "Note alla Memoria Prima", p. 38: "Chiamansi soprani-sfogati quelli, che nelle note acute, per mezzo del secondo registro, superano la scala ordinaria del soprano".

29 Ivi. p. 15.

30 Garçia M., op. cit., parte seconda, p. 109.

31 Lablache L., op. cit., p. 90.

32 L’edizione londinese, oltre a differire dal manoscritto per alcune piccole particolarità, presenta piuttosto un certo numero di errori grossolani, che sconcertano in un’edizione a stampa, fatta per conto dell’autore stesso.

33 Vaccaj N., 12 ariette per camera per l’insegnamento del bel canto italiano, Milano, Ricordi, s.d.

34 Vaccaj G., Op. cit., p. 149.

35 Aria di Aretea dalla 5a scena del I atto di Alcide al bivio:

Quell’onda che ruina
Dalla pendice alpina
Balza si frange e mormora,
Ma limpida si fa.
Altra riposa, è vero,
In cupo fondo ombroso:
Ma perde in quel riposo
Tutta la sua beltà.

Nell’arietta del Vaccaj è omesso il secondo verso della prima strofa, qui scritto in corsivo.

36 Il testo dell’arietta corrisponde alla seconda strofa dell’aria "Guarda pria se in questa fronte" dalla prima scena del terzo atto del dramma Ezio. Nell’Argomento il Metastasio racconta:

"Ezio, capitano dell’armi imperiali sotto Valentiniano terzo, ritornando dalla celebre vittoria de’ Campi catalaunici, dove fugò Attila re degli Unni, fu accusato ingiustamente d’infedeltà all’imperatore, e dal medesimo condannato a morire.

Massimo, patrizio romano, offeso già da Valentiniano per avergli tentata l’onestà della consorte, procurò l’aiuto d’Ezio per uccidere l’odiato imperatore; ma non riuscendogli, fece crederlo reo, e ne sollecitò la morte, per sollevar poi, come fece, il popolo, che lo amava, contro Valentiniano. Tutto ciò è istorico: il resto è verisimile" (in Brunelli B., op. cit., vol. I, p. 193).

In questa scena Onoria, "sorella di Valentiniano, amante occulta d’Ezio", lo visita in carcere e lo invita a confessarsi colpevole per ottenere clemenza dall’imperatore. Ezio rifiuta e la scena si conclude con l’aria:

Guarda pria se in questa fronte
Trovi scritto alcun delitto,
E dirai che la mia sorte
Desta invidia e non pietà.
Bella prova è d’alma forte
L’esser placida e serena,
Nel soffrir l’ingiusta pena
D’una colpa che non ha.

37 Cavalieri E. de’, Rappresentatione di Anima, et di Corpo, Roma, Nicolò Mutii, 1600. Ed. anastatica: Farnborough, Gregg Press, 1967.

38 Garçia M., op. cit., p. 64.

39 Ivi, p. 144.

40 Lablache L., op. cit., p. 92.

41 Nota di regìa per le battute fra l’uscita di Gilda e l’inizio del dialogo fra Rigoletto e Sparafucile.

42 Garçia M., op. cit., p. 114.

43 Duprez G., L’art du chant, 2e Edition, Paris, Heugel, 1845, p. 108.

44 Non può non venire alla mente che nel 1723 il Tosi aveva scritto: "Istrutto, che ne sia lo Scolaro, le Appoggiature gli diventeranno dal continuo esercizio così famigliari, che uscito appena dalle lezioni si riderà di que’ Compositori, che le marcano, o per esser creduti Moderni, o per dar ad intendere, che sanno cantar meglio de’ Vocalisti; Se hanno questo bellissimo talento di più, perchè non iscrivono anche i Passi, che sono più difficili, e molto più essenziali, che le Appoggiature? Se poi le segnano per non perdere il glorioso nome di Virtuosi alla Moda, dovrebbono almeno avvedersi, che quel carattere costa poca fatica, e meno studio. Povera Italia. Ma mi si dica di grazia! Non sanno forse i Cantori d’oggi dì dove vadano fatte le Appoggiature se non gli si mostrano a dito? A mio tempo le indicava l’ intelligenza. O eterno biasimo di chi primo introdusse queste puerilità forastiere nella nostra Nazione, che ha il vanto d’ insegnar all’ altre la maggior parte dell’ Arti più belle, particolarmente il Canto! O gran debolezza di chi ne siegue l’ esempio! O ingiurioso insulto a voi Cantanti moderni, che soffrite documenti da fanciulli." (Tosi P.F., Opinioni de’ cantori antichi, e moderni o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1723, pp. 22-23. Ed. anastatica New York, Broude Brothers, 1968).

45 Garçia M., op. cit., parte prima, pp. 14 e 21.

46 Lablache L., op. cit., p. 31.

47 Lamperti F., Guida teorico-pratica-elementare per lo studio del canto, dettata dal prof. Francesco Lamperti per le sue allieve del R. Conservatorio di Musica di Milano, Milano, Ricordi, 1864, p. 9-10 e 21-23.

48 Marchesi M., Metodo teorico pratico per canto diviso in tre parti della Maestra Matilde Marchesi, Ed. Torino, Giudici e Strada, Parigi, 1887, pp. 60-66.

49 Duprez G., op. cit., p. 20.

50 Faure J., La voix et le chant, Paris, Heugel, 1886, pp. 120-123.

51 Carli Ballola G., Il primo Ottocento, in Storia dell’Opera diretta da A. Basso, I/2, Torino, UTET, 1977, p. 408.

52 Il testo dell’arietta è la seconda strofa della prima delle arie di Scipione dall’azione teatrale Il sogno di Scipione:

Risolver non osa
Confusa la mente
Ché oppressa si sente
Da tanto stupor.
Delira dubbiosa,
Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia
Fra’ moti del cor.