MAURO UBERTI

Documento a futura memoria

in «ANALISI» n. 33 - Anno XI - Settembre 2000
Quaderno pedagogico 4
a cura di Leonardo Taschera



Premessa.
Il documento che segue, indirizzato al Direttore del Conservatorio di Torino, M° Luciano Fornero, per far fronte ad una situazione didattica fattasi ormai faticosa, era stato presentato come raccomandata a mano all'ufficio protocollo del Conservatorio stesso.
Esso non ha mai avuto risposta né scritta né verbale.
Nel corso di uno scambio di opinioni sulla didattica della lettura musicale, che si svolgeva nello stesso periodo fra il M° Marco De Natale e l'A., il fatto aveva destato l'interesse del primo e il documento gli era stato inviato in copia.
Recentemente il M° De Natale ha chiesto l'autorizzazione a pubblicare lo scritto su Analisi e l'A. è stato lieto ed onorato di accordarla.
Essendosi trasformato da documento personale, quale era in origine, in una pubblicazione, il testo viene messo in linea con le altre, preceduto dalla stessa prefazione che appare sulla rivista cartacea.  

 

“Riforma del Conservatorio o degli studi musicali?” È il titolo di un editoriale comparso sul n. 28/1999 di “Analisi”, a firma di Leonardo Taschera, ora membro del CNAM (Consiglio Naz.le per l'Alta formazione Artistica e Musicale) istituito per contribuire all'attuazione della Legge di riforma del Conservatorio. In rapporto a tale evento, riteniamo doveroso dare spazio a un Documento a futura memoria - da noi tenuto in serbo - parendoci che quel futuro sia in qualche modo già cominciato.

 

Al Direttore
del Conservatorio «G. Verdi»
Via Mazzini, 11
Torino

Oggetto: Documento a futura memoria.

Signor Direttore,
le interferenze nel mio insegnamento del solfeggio, che si sono verificate durante il trascorso anno accademico e il ragionevole timore che esse stiano per ripetersi in quello che sta per incominciare mi inducono a redigere un documento a futura memoria, che possa valere a spiegare a chi di diritto e di dovere il senso di ciò che sto facendo e, contemporaneamente, a tutelare in qualche modo il mio buon nome di insegnante nonché, se mai possibile, anche la mia libertà di insegnamento.

Per ragioni storiche, che non è il caso di esaminare in questa sede, nel Conservatorio italiano l'insegnamento del solfeggio è cristallizzato in schemi secolari, che hanno perso da tempo il senso dei criteri che li avevano originati. Non mi riferisco tanto ai programmi i cui limiti, tuttavia, sono largamente conosciuti e denunciati quanto all'interpretazione che ne viene data. È doveroso infatti osservare che, essendo la lettera del dettato ministeriale estremamente scarna, essa potrebbe essere interpretata nel senso più favorevole alla formazione dell'allievo, sia per quanto riguarda gli obiettivi che per i metodi didattici, con i quali tali obiettivi dovrebbero essere raggiunti. Al contrario il monte-ore di insegnamento del solfeggio è di solito e per buona parte impiegato in pratiche astratte, fine a se stesse, a svantaggio di apprendimenti più importanti e pertinenti. Causa più evidente di questa dispersione di energie sono i metodi di insegnamento.
Dobbiamo intanto osservare che costume attuale dell'insegnamento della lettura musicale nei conservatori italiani è la prevalente importanza attribuita al solfeggio parlato, corrispondente nel programma d'esame alle due prove di lettura nella sola chiave di sol e nelle diverse chiavi, rispetto all'educazione dell'orecchio, corrispondente nel programma d'esame alle tre prove di canto a prima vista, di trasporto cantato e di dettato. Questo modo di concepire il solfeggio è rimasto soltanto nostro in quanto basta visitare una libreria musicale della vicina Francia per capire che quanto diceva Paul Hindemith nel 1946 delle scuole italiana e francese e che riporto più avanti oggi per quella francese non vale più. Tuttavia in Italia, come vedremo, per quanto riguarda la lettura intonata qualche progresso è stato fatto. Non altrettanto si può dire per il solfeggio parlato della cui validità didattica è inutile parlare in questa sede in quanto esso fa parte obbligatoria dei programmi ministeriali, ma sull'insegnamento del quale si impone una serie di considerazioni.
Tralasciando la questione generale sui metodi deduttivi ed induttivi e scendendo immediatamente a quelli del solfeggio, si deve osservare che i metodi antichi di insegnamento della lettura, sia alfabetica che musicale, si fondavano sulla parcellizzazione. La mia generazione, per esempio, benché i principi del cosiddetto «metodo globale» datassero dalla fine del secolo scorso, ha quasi sempre imparato a leggere per sillabazione. Lo svantaggio di questo metodo non consiste tanto nella maggior fatica necessaria per imparare a leggere quanto nel fatto che le energie impiegate per acquisire la capacità di decifrare le singole parole potrebbero essere più utilmente dedicate alla formazione della capacità di organizzare il discorso così come avviene, appunto, col metodo globale.
Mutatis mutandis
, la stessa cosa avviene con i metodi tradizionali di solfeggio; in questi, infatti, esattamente come nei metodi tradizionali di insegnamento della lettura alfabetica si muove dalle regole grammaticali della scrittura musicale anziché dallo sfruttamento delle leggi naturali dell'apprendimento linguistico.
La critica a questi metodi non è soltanto mia. Già nel 1946 Paul Hindemith scriveva nella prefazione al suo libro: Elementary Training for Musicians (pubblicato in Italia nel 1983 dalle Edizioni Suvini Zerboni nella traduzione di Andrea Talmelli col titolo Teoria musicale e solfeggio e con una presentazione di Azio Corghi): «Un musicista educato su testi di solfeggio in uso nei paesi influenzati dalla cultura francese o italiana negherà probabilmente l'esistenza di trattati migliori. In effetti, conoscendo l'alto livello raggiunto dagli studenti che usano questi metodi nella lettura melodica e ritmica (soprattutto la più alta velocità di pronuncia del nome delle note), si potrebbe essere indotti a concordare con tali convinzioni. Ma gli svantaggi di questi metodi si presentano ben presto nel corso degli studi: è infatti estremamente difficile che studenti così preparati abbiano una visione melodica e armonica più completa o siano favoriti nell'acquisizione di una certa indipendenza nel loro lavoro creativo» (ed. it. citata, pag. X). Poi, dopo aver precisato che «Gli esercizi di questo libro non si addicono, in primo luogo, ad una superficiale informazione (sebbene possano tornare utili anche a dilettanti particolarmente interessati). L'espressione "per musicisti" usata nel titolo [originale. N.d.R.], chiarisce sufficientemente gli obiettivi» (ed. it. citata, pag. XI), prende ad insegnare la durata dei suoni per somma di impulsi ritmici anziché per suddivisione di valori. Hindemith sapeva cioè che delle quattro operazioni aritmetiche la somma è la più facile e la divisione la più difficile.
Già nel 1923 un altro grande compositore, Zoltán Kodály, aveva incominciato a lavorare ad un altro metodo di insegnamento della musica (cfr., p. es., Lois Choksy, The Kodály Method. Comprehensive Music Education From Infant To Adult, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1974). Prescindendo dalla parte del metodo riguardante l'insegnamento dell'intonazione, è facile rilevare come il criterio di base per l'insegnamento della durata dei suoni sia stato quello dello sfruttamento delle caratteristiche ritmiche della lingua madre dell'allievo proposte come modello di quelle musicali. Seguendo il suo percorso personale Kodály giunge forse per primo al risultato cui perverranno praticamente tutti i seguenti innovatori della didattica: quello di individuare delle cellule ritmiche fondamentali, che costituiscono l'ossatura della struttura ritmica della frase musicale. Anche in questo caso, cioè, il metodo della suddivisione, caratteristico della tradizione conservatoriale italiana, non è stato preso in considerazione.
Ma non soltanto la cultura occidentale aggiorna i metodi di insegnamento della musica. Nel 1933, pur senza fare un discorso generale, ma rivolgendosi ad uno specifico strumento, il violino, il giapponese Shiniki Suzuki, muove dall'osservazione dei meccanismi che stanno alla base dell'apprendimento del linguaggio parlato e ripete in ambito musicale i percorsi del metodo globale. Proprio il primo passo del metodo consiste nella memorizzazione e nell'esecuzione sullo strumento di una cellula ritmica che sarà fatta oggetto di scrittura e di lettura solo più avanti.
Dai tempi in cui Kodály, Suzuki e Hindemith mettevano a punto i loro metodi di insegnamento è passato più di mezzo secolo e anche le conoscenze sulla percezione e sull'apprendimento sono aumentate. Così, per esempio, nella vicina Francia troviamo Michel Ricquier che pubblica La lecture musicale par l'éducation de l'oeil. Méthode inspirée des techniques modernes de lecture rapide (Gérard Billaudot Éditeur, Paris, 1995). Le faccio grazia, invece, dell'elenco degli innumerevoli manuali di solfeggio, variamente tributari delle idee didattiche citate, che affollano le librerie musicali di quel Paese.
In Italia in metodi in cui, a mia conoscenza, si è cercato di rinnovare l'insegnamento del solfeggio sono tre.
Nel 1972 Roberto Goitre pubblica il suo Cantar leggendo (Edizioni Suvini Zerboni, Milano) in cui, rifacendosi dichiaratamente ad esperienze precedenti, per quanto riguarda l'intonazione degli intervalli sviluppa il noto metodo del «do mobile». Per quanto riguarda invece la lettura dei valori, riprende gli schemi ritmici di Kodály proponendo intanto un «alfabetiere» ritmico di «elementi prefabbricati» (pagg. XVII-XIX) con l'aria, tuttavia, di non aver compreso la portata didattica della sua proposta, che corrisponde ai metodi globali della lettura alfabetica.
Carlo Delfrati e Rita Ferri in La nuova scuola di teoria e lettura musicale (Curci, Milano, 1983), riprendono anch'essi e sviluppano in modo personale esperienze storiche, dalle quali è ormai impossibile prescindere e, per quanto riguarda la lettura dei valori e dei ritmi musicali, sfruttando i principi compositivi dell'aumentazione e della diminuzione.
Tre anni dopo Benito Corradini che da anni sperimentava alla Scuola Civica di Milano (il suo Che gioia cantare, Edizioni Curci, Milano, è del 1971) pubblica Cantiamo insieme (Carisch, Milano, 1986) e, mentre per quanto riguarda l'insegnamento della lettura delle note sfrutta le conoscenze sulle leggi della visione, per quanto riguarda i loro valori scrive nella prefazione: «Si apprendono i valori musicali giocando con il ritmo a una e due parti e compiendo il processo dell'addizione, operazione considerata più semplice dell'ardua divisione».
So bene di avere esplorato soltanto in parte il panorama della didattica del solfeggio, ma quanto ho esposto mi pare basti a mettere in rilievo lo stato di arretratezza della scuola musicale italiana.
Se poi, per parte mia, ritengo di dover seguire percorsi didattici che non sono quelli tradizionali i motivi sono almeno altri due:
1. quando avevo l'età dei miei attuali allievi ho imparato a scrivere la musica da autodidatta perché volevo fissare le ingenue melodie che andavo componendo ed ora osservo che il percorso seguito spontaneamente da quel bambino che ero io era simile a quello dei grandi metodi storici e che il fatto mi consente di rivisitare anche questi alla luce di un'esperienza personale particolare;
2. la musica è una delle forme della comunicazione umana e lo scambio di esperienze ed acquisizioni fra i vari campi di questa è molto utile. Per parte mia seguo con attenzione la ricerca che si svolge nell'ambito della comunicazione verbale (mi permetto di ricordarLe che sono anche cultore della materia nonché professore a contratto per l'insegnamento di Evoluzione umana e comunicazione fonetica presso la cattedra di Antropologia del corso di laurea in Scienze biologiche dell'Università di Torino) e nell'insegnamento del solfeggio tendo a sfruttare in modo particolare le esperienze e le acquisizioni della lettura alfabetica.
Piuttosto costituiscono grave difficoltà all'aggiornamento dei metodi la durata e i programmi del corso di teoria e solfeggio, quali sono previsti dal R.D. del 1930. Mentre nei Paesi a cultura musicale più avanzata lo studio di questa materia è riconosciuto come fattore fondamentale della formazione del musicista e lo accompagna lungo i suoi studi, nel nostro esso è limitato e compresso nei soli tre anni iniziali.
Ho detto precedentemente che la lettera dei programmi ministeriali, estremamente scarna, potrebbe essere interpretata nel senso più favorevole alla formazione dell'allievo invece di essere mortificata a verifica dell'apprendimento della decifrazione delle note. Lo stesso vale per la teoria, mortificata a geometria degli intervalli.
Sono fermamente convinto che, stante il limite dei tre anni in cui l'insegnante di Teoria e solfeggio è costretto ad operare ed essendo la materia ben più ampia di quella abitualmente richiesta agli esami, sarebbe possibile lasciargli scelte diverse da quelle tradizionali. Mi chiedo cioè se, dato che in ogni caso non è possibile insegnare all'allievo tutto ciò che la materia implicherebbe e dato che si è comunque costretti a lasciare alla sua iniziativa il compito di integrarne le lacune, non converrebbe riprendere in esame i criteri di insegnamento e, pur muovendosi nell'ambito della lettera del dettato ministeriale, tendere a formare musicisti più completi.
Ognuna delle prove di esame e quindi il relativo insegnamento potrebbe essere concepita in modo diverso. Il testo della prima, per esempio, recita: «Lettura a prima vista di un solfeggio in chiave di sol con combinazioni ritmiche difficili». Per dei musicisti «lettura» dovrebbe significare «lettura con senso musicale» mentre è certo che in italiano «solfeggio con combinazioni ritmiche difficili» significa altro da «solfeggio di combinazioni ritmiche difficili» così come solitamente avviene. Stante il fatto che al terzo anno di studio la tecnica strumentale di un allievo è ancora limitata, gli è certamente di scarsa utilità l'alta velocità di pronuncia del nome delle note (cfr. il citato Hindemith) attualmente voluta. Sarebbe più conveniente richiedergli una capacità di lettura che gli consentisse di affrontare con sicurezza il suo repertorio almeno, per esempio, fino al quinto anno, insegnargli piuttosto un metodo di lavoro autonomo che gli consentisse di sviluppare in seguito le sue capacità di lettura e dedicare il tempo risparmiato a svilupparne la capacità di organizzare le note in frasi dotate di senso musicale.
Considerazioni analoghe si possono fare sulla cosiddetta «prova di cultura» il cui testo recita: «Rispondere a domande sulla teoria». Dato che il dettato ministeriale non ne specifica il programma e dato che, stante il poco tempo a disposizione bisogna comunque sacrificare degli argomenti, non si capisce, sempre per esempio, perché bruciare le ore nell'insegnamento astratto di una geometria di intervalli che, non potendo ancora essere applicata all'armonia, a questo livello degli studi rimane senza significato musicale. Avrebbe senso invece dedicare lo stesso tempo a mettere in evidenza la struttura modale della scala, quella da cui derivano proprio quegli intervalli e che, stanti gli attuali programmi di armonia complementare, rischia di essere poi compresa soltanto dagli allievi di composizione.

Non è mia intenzione trasformare questo scritto in trattato del mio metodo di solfeggio; esso vuole essere soltanto, come detto all'inizio, un documento a futura memoria, destinato a testimoniare, nel caso in cui fosse necessario, che la mia didattica non è casuale. Ciò significa pure che, siccome secondo l'art. 33 della Costituzione «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento», nel caso in cui la mia libertà di insegnamento fosse ancora toccata reagirei con tutti i mezzi che la Costituzione, le leggi ed i regolamenti mi consentono.
Con osservanza.
Torino, 14 novembre 1998

Mauro Uberti
insegnante di Teoria e solfeggio
presso la Scuola Media Annessa