XV CONVEGNO EUROPEO SUL CANTO CORALE
LA SITUAZIONE ATTUALE DEGLI STUDI E DELLA
RICERCA
SULLA TECNICA VOCALE E SULLA DIDATTICA DELLA VOCALITÀ
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL CANTO CORALE
ATTI E DOCUMENTAZIONI - pp. 23-53
I limiti dell'oggetto
della presente relazione sono dettati dall'opportunità di
non sconfinare dal minimo di omogeneità culturale, dato
dall'unità linguistica e di rito religioso di un determinato
paese - l'Italia - nell'ambito di documentazioni sufficientemente
sicure. Come vedremo, infatti, la tecnica vocale, almeno in Italia
e dalla seconda metà del XVI secolo fino ai tempi in cui
Garçia scrive il suo trattato(1) non sembra
subire molte variazioni. A partire da quest'epoca, invece, le
tecniche vocali si moltiplicano, ma nessuno dei trattatisti
avrà la capacità di osservazione del baritono
spagnolo e, per trovare finalmente una descrizione di questa
molteplicità e varietà, dovremo arrivare al
laringologo francese Alexis Wicart che, nel 1931,
descriverà, sia pure approssimativamente, dieci tecniche
oltre a quella da lui definita
«fisiologica»(2).
Le documentazioni dirette sulla tecnica
vocale sono rare in quanto il canto è stato ed è
tradizionalmente insegnato per imitazione. Inoltre, poiché
essere dotati di buona voce significa anzitutto essere dotati
naturalmente di un buon coordinamento respiratorio, fonatorio ed
articolatorio, una delle affermazioni più diffuse, che si
trovano nei trattati è che, per cantare, non bisogna far
niente di diverso da quanto faccia abitualmente per parlare.
Conseguenza di ciò è che, almeno fino a Garçia
- il quale si propone lo scopo scientifico di descrivere il
meccanismo della «voix sombrée» in un'epoca
nella quale sia l'anatomia che la fisiologia sono già
alquanto avanzate(3) - non abbiamo descrizioni valide o
complete sull'argomento. A Camillo Maffei (il suo
«Discorso...»(4), che ho scelto come punto
di partenza per questa descrizione, è del 1562), che pure
era medico e scriveva con gli stessi intendimenti, per fare un
lavoro altrettanto valido manca soprattutto il metodo scientifico
e, benché già in possesso delle necessarie conoscenze
anatomiche (il grande trattato del Vesalio(5), per
esempio, è del 1543), ad eccezione di poche cose, tuttavia
importanti, non riesce neppure a descrivere tutto quello che pure
ha sotto gli occhi. Leonardo, che, ricordiamo, era morto nel 1519,
aveva già visto, descritto e disegnato in fonetica molto di
più(6), Tuttavia non è il caso di
accanirsi contro il povero Maffei dal momento che una descrizione
sistematica delle tecniche vocali romantiche e post-romantiche, che
abbia contemporaneamente valore musicologico e fisiologico,
è ancora oggi tutta da fare.
Chi si proponga di ricostruire le
tecniche vocali dei tempi passati si trova nella condizione del
paleontologo che tenta di ricostruire un intero animale da un
frammento d'osso ritrovato: deve cioè integrare sulla base
delle sue conoscenze tutto ciò che gli manca. Nel caso delle
tecniche vocali le documentazioni superstiti sono:
Le chiavi di lettura di
tutte queste fonti sono però fondamentalmente tre: anatomia,
fisiologia e fonetica. Quest'ultima in particolare, data la
corrispondenza biunivoca esistente fra suono e comportamento
fonatorio. Tutte le altre notizie devono essere filtrate attraverso
queste conoscenze che devono confermare se ciò che si dice
della vocalità è fisiologicamente possibile.
Prima di parlare di caratteri della
tecnica vocale vorrei però proporre il concetto di: tecnica.
Abitualmente di intende con questo termine il modo di usare la voce
da parte di un determinato cantante. Io vorrei distinguere fra
tecnica vocale e comportamento vocale. Parlerei di
tecnica quando l'uso della voce ha i caratteri, appunto, di una
tecnica, cioè di dottrina applicata all'arte: coscienza di
ciò che si fa, intento di ottenere risultati determinati,
razionalizzazione, possibili di trasmissione con l'insegnamento.
Parlando di tecniche vocali avevo proposto a suo
tempo(7) come definizione di «tecnica
vocale»: «l'insieme dei procedimenti intenzionali che
vengono posti in atto al fine di realizzare un determinato
risultato vocale». Negli altri casi mi pare più
corretto parlare di «comportamento vocale o
fonatorio».
Fin dai tempi più antichi (si
vedano, per esempio, le Etymologiae di Isidoro di
Siviglia(8)) si danno descrizioni di vari tipi di voce,
che hanno quasi il valore di classificazioni. Vi si parla di voci
sottili, robuste, acute, dure, aspre, rauche, cieche, agili, ecc.
riferendole a determinati tipi di costituzione fisica o
comparandole a strumenti musicali. Vengono anche espressi i
concetti di perfezione vocale: la voce deve essere alta, dolce e
chiara(9). Ma quando si giunge a Benigne de Bacilly (mi
si perdoni lo sconfinamento transalpino) troviamo anche
l'indicazione della maggiore adeguatezza dei diversi tipi di voce a
determinati generi musicali(10). Le due citazioni
dimostrano, se ce ne fosse bisogno, l'esistenza da sempre della
variabilità vocale, ma, soprattutto, della coscienza di
questa e del suo sfruttamento ai fini musicali.
Più importante ancora appare
dall'esame di alcune trattazioni l'esistenza da sempre di voci
«buone» e di voci «comuni»: le prime dotate
del registro superiore ovvero capaci di produrre a voce piena le
note acute oltre il cosiddetto «passaggio»; le seconde
quelle che non sono capaci di farlo e, per produrre le stesse note,
devono adottare il falsetto.
Delle informazioni che ricordo la
più obliqua è quella del Vicentino. Nel libro 4, cap.
17, della sua «Antica musica...»(11) egli
prescrive infatti che «per commodità dei cantanti
& acciò che ogni uoce commune possi cantare la
sua parte commodamente... mai si deve aggiognere righa
alcuna, alle cinque righe, ne di sotto ne di sopra, in nissuna
parte, ne ancho mutar chiavi». Questa limitazione ad un
ambito molto ristretto per ciascuna delle voci mostra che il
Vicentino non prevede, o almeno sconsiglia, il passaggio della voce
nel registro acuto infatti, più avanti specifica:
«questa commodità sarà communa, si alle uoci
buone, come a quelle non troppo gagliarde e potenti», con
che evidentemente sottende che le «uoci buone» (fra le
quali, ovviamente, quelle dei cantanti professionisti) erano capaci
di maggiori estensioni.
Adriano Banchieri nella sua
«Cartella musicale...» si occupa brevemente della
divisione delle voci dicendo: «Quattro voci differenti
ricercansi al perfetto Conserto Musicale, & queste sono
Soprana, Alta, Corista & Bassa, il Cantore che possiede l'una
di queste, in tre condicioni la possiede, cioè voce di
testa, voce di petto & voce obtusa; quello che dalla natura
viene dotato della prima, è Cantore perfettissimo; quello
che ha voce di petto è Cantore perfetto, & chi tiene in
se voce obtusa, è Cantore imperfetto, & prima: voce di
testa intendesi quella, che in Soprano, senza incomodo aggiunge ad
una distanza di dodeci voci, similmente le altre parti come
quì.
Voce di petto intendesi
quella che giunge alla distanza di dieci voci, & volendo
procedere più sú non puo & rende noia in vederlo
& sentirlo, chi possiede vna di queste dui voci (che sia soaue
& bene organizata) è dono particolar di Dio; della terza
voce obtusa, diremmo sia quella, che in Soprano sembra vna Cattina,
in Contr'alto un Ciucho, in Tenore vn Asino, & nel Basso un
Bue...»(12).
Per chi ha pratica di voci tradurre
queste indicazioni è facile: «voce di testa»
è quella che supera agevolmente il «passaggio»
(anche se il Banchieri non le richiede un'estensione maggiore di
«dodeci voci»); «voce di petto» è
quella musicalmente utile fino al «passaggio». Quanto
alla «voce obtusa» si tratta di una battuta degna
dell'autore della «Nobilissima anzi asinissima Compagnia
delli Briganti della Bastina».
Torno a citare il transalpino
Bénigne de Bacilly perché è il più
esplicito sulla coesistenza dell'uso della voce naturale e di
quella di falsetto. Al Cap. VII, «Delle voci proprie per il
modo di cantare», dice: «Quelli che hanno la voce
naturale disprezzano le voci di falsetto come false e stridule; e
questi qui ritengono che il fine del canto appare molto più
in una voce squillante, così come l'hanno coloro che cantano
in falsetto, che in una voce di tenore naturale, che,
ordinariamente, non ha altrettanto squillo benché abbia
maggiore intonazione». E più oltre: «.. le voci
di falsetto fanno apparire di più ciò che cantano che
le voci naturali; ma d'altra parte esse hanno dell'agro e mancano
sovente d intonazione, a meno che non siano così ben
coltivate da sembrare passate in natura»(13).
Quasi un secolo più tardi il
Mancini, in Italia, usa il termine di «voci naturali»
per indicare quelle di tenore e basso in contrapposizione a quelle
dei castrati (14), ma conferma l'esistenza di voci naturalmente
dotate di tutta l'estensione in opposizione a quelle comuni:
«Le voci ordinariamente si dividono in due registri, che
chiamansi, l'uno di petto, l'altro di testa ossia falsetto. Ho
detto ordinariamente, perché si dà anche qualche raro
esempio, che qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono
di poter eseguir tutto colla sola voce di
petto»(15). Più avanti, però,
all'Articolo VIII, «Dell'unione de' due Registri, portamento
di voce, e dell'appoggiatura», non dirà in
realtà con quali mezzi didattici egli ottenga quest'unione
perché le sue spiegazioni si limitano alle seguenti parole:
«...essendo la voce di testa bisognosa d'ajuto perché
separata da quella di petto, il mezzo più certo per ajutarla
a unirsi con questa, si è, che lo scolare, senza perdita di
tempo, intraprenda, e si prefigga nel suo studio giornaliero la
maniera di ritenere le voci di petto, e di forzare a poco a poco la
corda nemica di testa per rendere quelle nel miglior modo possibile
eguali a questa»(16).
Allo stesso modo aveva taciuto prima di
lui Pier Francesco Tosi nelle sue «Opinioni...»
dicendo: «Un diligente istruttore, sapendo che un soprano
senza falsetto bisogna che canti fra l'angustie di poche corde, non
solamente procura di acquistarglielo, ma non lascia modo intentato,
acciò lo unisca alla voce di petto, in forma che non si
distingua l'uno dall'altra»(17).
La mia personale opinione è che,
esattamente come nella maggior parte dei casi odierni, valesse
anche allora soprattutto l'imitazione della voce del maestro da
parte dell'allievo.
Nel gergo corrente oggi giorno le voci
naturali sono dette: impostate per natura (e vedremo fra poco il
significato fisiologico di questa espressione) ed è
ragionevole pensare che le voci professioniste, per le cappelle
musicali e le camere prima, per il teatro poi, venissero reclutate
principalmente fra queste.
Sia dai teorici che dai pratici
rinascimentali sappiamo tuttavia di due diversi modi di cantare: da
camera e da cappella (18). Il primo, inoltre, distinto
in canto di agilità e in canto espressivo (il «cantar
di gorga» e il «cantar dolce e
soave»(19). Ho già trattato di queste due
tecniche in uno studio precedente e ne riassumerò fra poco i
dati essenziali(20), ma prima vorrei descrivere il
fenomeno biomeccanico che vi corrisponde.
Le corde vocali, dopo essere pervenute in
posizione fonatoria (cioè dopo essersi ravvicinate come le
labbra della bocca) (fig. 1) possono
essere messe in tensione grazie a tre diversi
meccanismi:
Nel corso di ogni
espirazione i polmoni, con i bronchi, la trachea e la laringe,
compiono un movimento di risalita che può essere verificato
ponendosi un dito sul pomo d'Adamo (la laringe). Nelle persone
dotate di una buona respirazione questo movimento è molto
ampio. Poiché la parte anteriore della cartilagine tiroide
è legata allo sterno dai muscoli sternotiroidei, questo
legame è sufficiente a determinarne l'inclinazione
trattenendola inclinata in basso durante la risalita del resto
della laringe e la produzione delle note acute per stiramento in
avanti delle corde vocali (fig.
8).
Se poi a questo comportamento
respiratorio ottimale si accompagna un comportamento articolatorio
del tipo che, per esempio, è proprio dei napoletani e dei
siciliani (fig. 9) (ma che appare
chiaramente anche dalle rappresentazioni iconografiche antiche
(fig. 10 e fig.
11)) dato dalla mandibola tendenzialmente protesa in avanti
come nella produzione della consonante /b/, si somma all'azione
della componente respiratoria anche quella articolatoria.
È, questo, il comportamento
fonatorio delle voci cosiddette «naturali».
È dimostrato che, correggendo in
questa direzione il comportamento fonatorio di qualsiasi persona
ancora in possesso di corde vocali integre e non paralizzate
è possibile portarla ad un'estensione minima di due ottave
di suono omogeneo in tutta la gamma: di dotarla cioè, di una
voce naturale(21). Ma gli antichi, come abbiamo visto,
non lo sapevano e, fin verso il 1830, vi fu chi nell'acuto cantava
con voce piena e chi cantava in falsetto. Attorno a quest'epoca
qualcuno in Italia (secondo il Della Corte fu forse il tenore
Domenico Donzelli(22)) scoprì che, adottando un
atteggiamento fonatorio simile allo sbadiglio, si poteva andare
nell'acuto senza bisogno del falsetto. Nello sbadiglio, infatti, si
ha una trazione spasmodica dei muscoli abbassatori della laringe e
delle stesse corde vocali allargate in posizione inspiratoria.
Adottando questa tecnica, la cartilagine tiroide viene inclinata in
avanti per contrazione dei muscoli sternotiroidei e le corde
vocali, questa volta in adduzione, vengono stirate mentre sono in
contrazione attiva (fig. 6). Tale
comportamento fonatorio induce importanti effetti
secondari:
L'oscuramento del
timbro, che imprime alla voce un carattere intensamente drammatico,
e l'aumento di potenza sono due qualità che costituiscono
ancora oggi la fortuna di questa tecnica (solitamente attuata,
però, con alcune modifiche) nonostante la netta diminuzione
di comprensibilità.
È questa, in breve, la tecnica
della «voix sombrée» descritta dal
Garçia.
Tornando ora alle tecniche rinascimentali
e barocche e assodata l'esistenza da sempre della
variabilità del comportamento fonatorio, ciò che in
realtà è possibile identificare è l'ideale
vocale del tempo e quale tecnica vi rispondesse meglio.
Una qualità, oggi come allora
sempre richiesta, era l'omogeneità in tutta l'estensione. Si
veda, per esempio, la lettera da Venezia ad Alessandro Striggio di
Claudio Monteverdi del 24 luglio 1627(24) dove il
Cremonese richiede l'unione della «vocale del petto a quella
della gozza», ma, meglio ancora, l'opinione del solito
Mancini: «... si scorgono alcune voci dure e pesanti, altre
flessibili e leggiere, molte delle quali i suoni, ancorchè
belli, sono inegualmente distribuiti, ve ne hanno però
alcune, le quali fanno sentire sempre l'istessa qualità di
suono in tutta la loro estensione»(25), L'altra
grande qualità richiesta era la comprensibilità e le
citazioni dovrebbero essere tante che vi rinuncio. Ciò che
importa è che le due qualità sono foneticamente
antitetiche, ma che, tuttavia, nella tecnica delle voci naturali si
riesce a realizzare un buon compromesso fra l'una e l'altra.
Alle voci da cappella si richiedeva
inoltre la maggior potenza possibile in quanto (come, del resto,
nei cori stipendiati ancora oggi) si preferiva pagare pochi cantori
che cantassero forte anziché molti che cantassero piano. La
selezione nelle assunzioni permetteva, allora come oggi, di attuare
questa scelta. Al capitolo 29 del Libro IV della sua «Antica
Musica» il Vicentino ricorda che «... nelle chiese...
si canterà con le uoci piene» e, alcune righe
più in là, che «nelle parti più basse il
Cantante a uoce piena non possi accomodarsi a proferir
correndo»(26), La sola spiegazione
fisiologicamente ragionevole è che il cantante di coro
dovesse compensare lo squilibrio esistente fra il piccolo numero
dei componenti lo stesso e la necessità di riempire la
chiesa di suono con una tecnica vocale che induceva una contrazione
attiva delle corde vocali (voce di petto) tale da ostacolare la
loro agilità nella tessitura bassa.
Che per cantare «forte» o
«piano» si studiasse in modo diverso ce lo dice lo
Zacconi: «... chi dice che col gridar forte voci si fanno,
s'inganna... perché molti imparano di cantare piano &
nelle Camere, ove si aborrisce il cantare forte, & non sono
dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese ò
nelle Capelle ove cantano i Cantori
stipendiati»(27).
Sull'entità della potenza di voce
adottata nelle cappelle ci viene aperto uno spiraglio interessante
dal medico Girolamo Mercuriali (1530-1606) che, nel 1569, con i
suoi Artis gymnasticae apud antiquos celeberrimae, nostris
temporibus ignoratae, libri sex, ancora fedele ai precetti della
medicina galenica, tratta a due riprese «Della costrizione
del fiato» e «Della
vociferazione...»(28). Per quanto nel titolo e dia
per «ignorata» l'arte ginnica ai suoi tempi e nella
dedica al cardinale Alessandro Farnese, del quale era medico
personale, si vanti di aver preso ad occuparsi di «cosa nuova
e da pochi forse pensata»(29) il numero delle
successive edizioni induce a pensare che le pratiche fisioterapiche
di cui tratta rifacendosi all'autorità dei medici antichi
(Ippocrate, Erasistrato, Dioclo, Erofilo, Celso, ecc.) non
venissero soltanto descritte, ma anche applicate. Del resto
già il Maffei - pochi anni prima, come abbiamo visto -
attestava espressamente: «Buono anco rimedio [à far
buona voce] è il tenere una piastra di piombo nel stomaco,
si come anco il medesimo Nerone facea»(29bis).
Comunque, per quanto riguarda il fiato e la vociferazione, il
Mercuriali dice che analogamente a quanto si fa oggi in clinica,
nella riabilitazione funzionale respiratoria(30)
«I medici... usavano un doppio tipo di costrizione: una con
la quale tutti i muscoli del torace rilasciati venivano
immobilizzati... l'altra nella quale anche i muscoli dell'addome
venivano costretti;... in tutti e due i casi facevano uso di certe
fasce, cingendo con le quali il torace, le coste e il ventre
più agevolmente conseguivano lo scopo»(31).
Gli scopi, in realtà, erano molteplici. Fra questi
«Celso approvava l'esercitarsi nello scioglimento della
lingua a fiato trattenuto così come Ezio in ogni
sconvolgimento vocale»(32). Ma poi soggiunge:
«Per nessun motivo devono esercitarsi a trattenere il fiato
coloro che patiscono di ernia... perché... si formano ernie
di difficile guarigione come con frequenza suole avvenire ai
suonatori di strumenti a fiato ed ai
cantori...»(33). E più avanti ancora:
«Non di meno è opportuno tener sempre a memoria quel
detto di Avicenna secondo il quale è pericoloso emettere una
gran voce a lungo perché sovente accade che dai predetti
esercizi di voce derivino numerose ernie e altre crepature, come
possono assicurare i sacerdoti o i cantori di
oggi»(34). La raffigurazione di quattro putti
costretti da fasce respiratorie (fig.
12), presente nell'edizione del 1601(35), e
queste ultime considerazioni lasciano adito alla supposizione che i
cantori da cappella cantassero al limite delle loro
possibilità fisiche e che l'irrobustimento della voce fosse
oggetto di metodi particolari. Di questo modo di cantare
«forte» troviamo ancora traccia nelle
«Mémories d'un artiste» di Gounod il quale,
ricordando l'ascolto della Cappella Sistina negli anni fra il 1840
e il 1843, dice: «Quella musica... mi diede in principio
un'impressione quasi sgradevole. Era lo stile stesso delle
composizioni, per me nuovissime, era la particolare sonorità
di quelle voci che il mio orecchio udiva per la prima volta o forse
quello attacco risoluto fino alla rudezza, quel martellamento
vivace che dà tanto rilievo all'esecuzione sottolineando le
varie entrate delle voci nell'impasto pieno e
serrato»(36).
Ma già dieci anni prima
Mendelssohn in una famosa lettera da Roma al suo maestro
Zelter(37) così descrive il modo di cantare della
«Cappella del sommo pontefice»: «... essi per la
massima parte e quasi di regola usano la loro voce con la massima
forza e tengono le note lunghe a piena gola con uguale potenza,
così che da noi, io credo, sarebbero considerati
scorretti»; e più in là: «... si canta a
piena voce quanto più forte è
possibile...».
Questo tipo di emissione nella musica
sacra corale costituisce un grosso problema musicale. Dato per
evidente che la dinamica venisse compressa verso il
«forte» e il «fortissimo» dobbiamo dedurre
che i mezzi espressivi dinamici ne risultassero impoveriti. Non
potendo ora accettare che le esecuzioni fossero
inespressive(38) ci pare di dover inferire che i mezzi a
disposizione dei cantori diventassero di tipo strumentale. Si legga
quest'espressione «cum grano salis». Gli strumenti,
soprattutto quelli a dinamica compressa, come il flauto dolce, il
clavicembalo e l'organo, devono sopperire ai loro limiti dinamici
sfruttando prevalentemente il fraseggio e l'articolazione: legati,
staccati, «pronunce», modulazioni agogiche,
ineguaglianza del ritmo, ecc. Allo stesso modo è possibile
alla voce, quando sia impoverita nelle sue possibilità
dinamiche e timbriche, raggiungere ugualmente
un'espressività molto intensa, anche se sofisticata,
puntando sull'articolazione prosodica e fonetica, prima, ma poi sui
mezzi tipicamente strumentali accennati anziché
sull'espressività naturalistica, di tipo rappresentativo,
che le sarebbe peculiare. Il medico, filosofo, cantante e liutista
Camillo Maffei nel suo «... discorso della Voce...»
affronta problemi di fisiologia e terapeutica vocali ancora secondo
gli insegnamenti della medicina galenica, ma, soprattutto,
«... del Modo d'apparare di cantar di garganta senza
Maestro...». Dall'intera lettera si ricava che egli tratta
del canto da camera e che a questo si riferiscono le poche
indicazioni tecniche fornite. Egli dice, per esempio, che «il
luogo dove i passaggi si formano, è quello istesso, nel
quale si forma la voce; cioè la cartilagine chiamata
cimbalare...»(39) e infatti la corretta
agilità vocale dipende dall'attitudine dei muscoli
intrinseci della laringe (e degli sternotiroidei) a modificare
rapidamente la tensione delle corde vocali senza ulteriori
appesantimenti respiratori. Fornisce poi dieci «regole»
relative alla tecnica, fra le quali «La sesta è, che
distenda la lingua di modo, che la punta arrivi, e tocchi le radici
de' denti di sotto»(40). La costanza di questa
posizione della lingua nella pronuncia di tutte le vocali è
infatti indispensabile per differenziare bene le vocali conservando
contemporaneamente un atteggiamento costante della faringe, che
garantisca una soddisfacente omogeneità del timbro.
«La settima è, che tenga la bocca aperta, e giusta,
non più di quello che si tiene quando si ragiona con gli
amici»(41), Tale comportamento articolatorio
consentirà al cantore di produrre vocali cantate simili a
quelle della loquela. «L'ottava, che spinga appoco, appoco,
con la voce il fiato...»(42). E evidente il
contrasto con la tecnica da cappella. Poche righe dopo, prima di
dare «alcuno essempio di notole, per le quali si possa
passagiando, acquistare la dispositione della gorga»
ribadirà «ch'il discepolo... havrà
distesa la lingua nel modo detto». Poiché per
distendere la lingua è necessario contrarre i muscoli del
pavimento della bocca - i quali, come detto, tramite l'osso ioide
agiscono sui corni superiori della cartilagine tiroide come su di
una coppia di leve - è evidente, in base a quanto
precedentemente detto, che questa tecnica corrisponde a quella
delle voci naturali.
Oltre all'agilità, alla voce da
camera era richiesta la capacità di colorarsi di tutte le
inflessioni emotive che l'estrinsecazione degli affetti
richiedeva(43). Ciò è possibile soltanto
con un comportamento fonatorio che generi una voce in partenza
serena; risultato che si ottiene adottando preferenzialmente i due
meccanismi di distensione passiva delle corde vocali, sempre come
avviene nella tecnica delle voci naturali. Se si osserva poi che,
quando il tipo di scrittura è melismatico, le diminuzioni
scritte si trovano anche in tessiture bassissime per tutte le
classi vocali, dobbiamo concludere che il registro di petto, che
ostacola l'agilità, fosse tendenzialmente riservato
all'espressione di passioni intense, che anche nell'espressione
verbale vengono espresse con questo mezzo.
Due sono le novità che, ad un
certo punto, sembrerebbero dover aver introdotto cambiamenti nella
tecnica vocale: lo sviluppo del mottetto solistico e l'apertura dei
teatri al pubblico pagante. Sia in un caso che nell'altro
ritroviamo l'esigenza di conciliare due caratteristiche vocali fra
loro antitetiche: potenza e agilità. Sia in un caso che
nell'altro correva l'uso - anzi, l'obbligo professionale - di fare
diminuzioni mentre sussisteva l'esigenza di farsi sentire in un
ambiente vasto; tuttavia non ho mai trovato alcun indizio di
cambiamenti nella tecnica vocale fino al trattato del Mancini, che,
come vedremo, sembra preludere in qualche modo alla tecnica
descritta dal Garçia.
La preoccupazione costante di tutti gli
autori permane la comprensibilità e, in particolare, la
distinzione del sistema vocalico in sette fonemi (/e/ ed /o/ aperte
e chiuse), fatto, questo, che induce a pensare alla persistenza di
una tecnica del tipo naturale precedentemente descritta. La
soluzione ragionevole del problema è che, allora come oggi,
esistesse una selezione naturale, che, per quanto riguardava le
voci professionali, tenesse conto delle doti fisiche prima che di
quelle musicali. Ne è un bell'esempio il rapporto di
Monteverdi al Duca di Mantova in data 9 giugno 1610 su un contralto
da assumere(44): «Da M. Pandolfo m'è statto
commesso da parte de l'A.S.S. ch'io senta un certo contralto venuto
da Modena desideroso egli di servire all'A.S.S. cosi di longo l'ho
condotto in santo Pietro et l'ho fatto cantare un motetto
nell'organo et ho udito una bella voce gagliarda et longa, et
cantando in sena giungeva benissimo senza discomodo in tutti li
lochi cosa che non poteva il Brandini, ha trillo assai bono, et
honesta gorgia, et canta assai sicuro la sua parte ne motetti, et
spero che non dispiacerà all'A.S.S. ha qualche diffettuzi
come a dire s'ingorga un poco talvolta la vocale quasi nella
maniera di Mr. Pandolfo, et talvolta se la manda nel naso et ancora
se la lassia sdrussilare tra denti che non fa intelligibile quella
parola e non percotte bene la gorgia come bisognerebbe ne la
rindolcisse a cert'altri lochi, ma tutte queste cose io sono di
certa opinione che subbito avertito il tutto si leverebbe, non l'ho
potuto sentire ne madrigali perchè era già in pronto
per partire...». Come si vede, Monteverdi, richiesto di
valutare un cantore che dovesse servire come solista tanto in
cappella quanto in teatro e «nelle camere», si
preoccupa anzitutto della belleza, della potenza, dell'estensione e
dell'agilità (gorgia) della voce, disposto anche a farsi
carico - come si sa che faceva - della correzione di «qualche
diffettuzzi» che pure il contralto presentava(45).
Il fatto che intendesse ascoltarlo anche nei madrigali fa pensare
che, almeno questo solista dalla «bella voce gagliarda et
longa», cantasse fondamentalmente con tecnica da camera
prodigando o trattenendo la sua voce a seconda dell'ambiente in cui
di volta in volta si veniva a trovare («nelle camere - come
abbiamo sentito dallo Zacconi - ... si aborrisce il cantare
forte»).
Che almeno Monteverdi non amasse servirsi
in teatro di cantori da cappella, che avessero studiato per
«cantare forte», mi pare si possa dedurre da un'altra
sua lettera, quella del 9 dicembre 1616 da Venezia ad Alessandro
Striggio(46) nella quale, riluttante a musicare
«la favola maritima delle nozze di Tetide», dice che
«poichè le armonie saranno poste ne fiati piu grossi
del aria della terra fatti così da essere da tutti uditi et
dentro la sena da essere concertati ... per tal diffetto in loco
d'un chitarone ce ne vorà tre; in loco d'un Arpa ce ne
vorebbe tre et via discorendo; et in loco d'una voce delicata del
cantore ce ne vorebbe una sforzata; ...».
Un cambiamento della tecnica, tuttavia,
deve essere avvenuto almeno ai tempi del Mancini che, è il
caso di osservare, quando pubblica a Vienna, nel 1774, la prima
edizione del suo trattato, ha cinquantotto anni. Egli, infatti,
mentre prescrive dichiaratamente ciò che finora avevamo
potuto rilevare soltanto dall'iconografia - che, cioè, la
mandibola sia protesa in avanti «in modo che i denti di sopra
siano perpendicolarmente, e mediocremente distaccati da quelli di
sotto»(47) (prescrizione che troveremo ancora in
Garçia con preciso riferimento allo stesso
Mancini(48) - dice anche «che i buoni professori
usano gran fatica nel piegare, o sia incanalare la lingua nel mezo,
acciò la voce non trovi nell'escire impedimento
alcuno»(49). Questo atteggiamento articolatorio
comporta inevitabilmente l'abbassamento dell'osso ioide (cui la
lingua, come già detto, è inserita), almeno
l'inclinazione della cartilagine tiroide se non l'abbassamento di
tutta la laringe e, comunque, l'arrotondamento di tutto il sistema
vocalico. E certo che questa tecnica, realizzata sperimentalmente
da soggetti capaci di fare uso di diverse tecniche vocali dà
luogo ad una voce più potente e smaltata di quella
rinascimentale e barocca precedentemente descritta.
L'arrotondamento generale delle vocali, però, che la
caratterizza, ne riduce un poco la comprensibilità e le
infonde un carattere lievemente ma innegabilmente patetico, che non
le consente più di esprimere in modo così
inequivocabile ogni sorta d affetti come era possibile con la
precedente.
Tuttavia questo aumento di potenza doveva
essere avvertito come ancora insufficiente perché dieci anni
dopo l'Arteaga diceva(50) «Dal
Jumella(51) in quà... Si è multiplicato
all'eccesso il numero dei violini, si è dato luogo nella
orchestra a gli strumenti più rumorosi... I tamburi, i
timbali, i fagotti, i corni da caccia, tutto è ivi raccolto
a far dello strepito... Tra il fracasso dell'armonia, tra i tanti
suoni accavallati l'uno sopra l'altro, tra i milioni di note, che
richieggono il numero e la varietà delle parti,
qual'è il cantore, la cui voce possa spiccare?». E
aggiunge(52) «... un altro vizio non minore di
questo è venuto di mano in mano prendendo piede, cioè
la spessezza delle note. [che]... succedendosi così
affollate e con tanta rapidità, affogano la voce del cantore
in maniera, che poco o nulla si sente dagli uditori».
E difficile dire che cosa accadde in
quella sessantina d'anni che va dal trattato del Mancini a
quell'anno 1832, nel quale Garçia dichiara di aver imparato
in Italia la tecnica della «voix sombrée». Egli,
accanto a questa, descrive altre due tecniche musicalmente utili e,
verosimilmente, ambedue in uso in quegli stessi tempi: la
«voix claire» o «color chiaro» e il
«color rotondo». Di questa seconda tecnica egli
dice(53) «Quando la laringe prende una postura
alquanto più bassa di quella che suol prendere pel color
chiaro...: allora la voce esce chiara sì, ma più
rotondata...». Omessa da questa citazione, così come
avverrà fra poco nella descrizione della «voix
blanche», la parte che riguarda il velo palatino a causa
delle perplessità di ordine fonetico, che essa lascia e che
non è il caso di approfondire in questa sede, mi pare di
poter ravvisare in questa tecnica la continuazione di quella del
Mancini.
Di origine francese è
verosimilmente, invece, la «voix blanche» o color
chiaro», tenuto conto della storia dell'opera e dei
cantanti(54). Essa, secondo la descrizione del
Garçia(55), ha in comune con la «voix
sombrée» l'accanalamento della lingua e quindi, in
qualche modo, l'uso della meccanica dello sbadiglio per realizzare
il «passaggio». Con questa tecnica, sempre secondo il
Garçia(56), venne realizzato il «Do di
petto» da parte del Duprez nel 1831(57), impresa
che significò estendere a tutta la gamma vocale l'uso della
contrazione attiva delle corde vocali. In essa la laringe è
libera nei suoi movimenti verticali e sono soprattutto gli
atteggiamenti del canale vocale a conferire alla voce il
caratteristico color chiaro.
Poiché le voci naturali, nel 1847
come sempre, non avevano certamente cessato di nascere e niente
induce a credere che esse non venissero usate almeno nelle camere,
dobbiamo concludere che, nell'anno della pubblicazione del trattato
del Garçia e in Italia, fossero in uso almeno cinque
tecniche vocali:
A questo punto della
storia delle tecniche vocali, gli scambi avvenuti tra Italia e
Francia sembrano aver indotto forti cambiamenti nella fonetica
articolatoria del canto italiano. Mancini, confermando con le sue
parole ciò che tacitamente indicavano le rappresentazioni
iconografiche del periodo da noi preso in esame - che ci presentano
quasi sistematicamente i cantori con la bocca aperta in senso
verticale - ci dice: «[i maestri] Nel fare le pratiche
applicazioni potranno maggiormente dimostrare la verità
delle qui sopraddette cose, facendo pronunziare agli scolari le
cinque vocali A E l O U con l'indicata posizione di
bocca(58), e vedranno che quest'altro cambiamento non
riceve, che nel proferire l'O e l'U, perchè nel pronunziare
la vocale O obbliga solo una quasi invisibile mutazione di bocca: e
nel pronunziare la vocale U si devono un poco unitamente avanzare
le labbra, e in tal maniera la bocca non si allontana dal suo moto
naturale, ma resta nel suo primiero essere, ed evita tutte le
perniciose caricature(59)». Tale economia nei
movimenti esterni delle labbra, che potrebbe far pensare ad una
diminuzione della comprensibilità, può invece essere
compensata «ad abundantiam» con la ampiezza dei
movimenti verticali della lingua; anzi, se ne ottiene il miglior
compromesso possibile tra comprensibilità della parola ed
omogeneità del timbro vocale. Mancini, non essendo un
fonetico moderno, non ha coscienza chiara di questo fenomeno, ma le
conoscenze attuali sulla fonetica articolatoria consentono a noi di
pervenire al suo tipo di comportamento fonatorio come all'unico
compatibile tra la rilassatezza delle labbra e l'alta
comprensibilità ottenuta.
La lingua italiana, che, con le sue vocali
occupa solo sette aree dello spazio vocalico e possiede quindi
un'ampia ridondanza fonetica, può permettersi
un'articolazione di tipo verticale conservando un'ottima
comprensibilità. La lingua francese, invece, che, soltanto
con le vocali orali (per tacere di quelle nasali), ne occupa
dodici, è costretta anche nel canto ad un'articolazione
labiale più accentuata, di tipo orizzontale, che consenta di
distinguere nettamente, per esempio, fra: /é/, /è/,
/EU (aperto)/, /eu (chiuso)/ ed /ë (muta)/. Ecco infatti
Garçia dichiarare: «L'unico modo raggionevole di
muovere le labbra è quello di avvicinare od allontanarne le
estremità... Se invece si volesse aumentare tale uscita
mediante l'allontanamento delle labbra, nel senso dell'altezza, si
otterrebbe all'opposto un ravvicinamento delle estremità;
oltrediché, rotondando la bocca, se ne diminuirebbe
l'apertura: e da ciò l'assordimento della voce, la nessuna
distinzione delle vocali, l'articolazione inceppata, il volto teso,
ecc.(60)».
Un ultimo discorso generale, importante
oggi per le diatribe stilistiche di cui è oggetto, è
da farsi sul vibrato. Il vibrato è una componente di bassa
frequenza della voce (non solo umana perché lo scrivente ne
ha osservato un accenno anche in quella dello scimpanzè),
costituito da modulazioni periodiche dell'intensità e
dell'altezza tonale. Dal punto di vista della comunicazione
costituisce una delle più importanti connotazioni di
emotività. Le teorie sulla sua formazione sono
numerose(61). Secondo la più
recente(62) è dato dall'interazione fra
l'elasticità del mantice respiratorio e la
variabilità della resistenza alla pressione sottoglottidea
da parte della laringe. Tale interazione si risolve in variazioni
periodiche della pressione polmonare, che provocano corrispondenti
allungamenti della trachea. Il già descritto legame tra lo
sterno e la cartilagine tiroide, costituito dai muscoli
sternotiroidei, determina inclinazioni della cartilagine tiroide e
stiramenti delle corde vocali, che danno luogo a periodici
innalzamenti della frequenza, cioè al vibrato.
Il vibrato è sempre presente anche
nelle voci apparentemente più ferme ed è comunque
evidenziabile con mezzi elettroacustici. La sua ampiezza e la sua
frequenza sono funzione di molteplici variabili di carattere
anatomico e fisiologico. Molta influenza vi ha, per esempio, la
cedevolezza costituzionale della parte addominale, ma ancora di
più ne ha il tipo di tecnica vocale adottata. E certo che
l'aumento della forza di chiusura della laringe ne determina in
tutti i casi l'aumento in ampiezza come dimostrano, del resto, le
tecniche romantiche, nelle quali il vibrato è
particolarmente accentuato. Tanto detto sul piano fisiologico,
è evidente che il vibrato è anche un carattere
stilistico, il cui uso varierà a seconda dei risultati
estetici perseguiti. Tentando ora di dare un quadro riassuntivo
delle tecniche vocali in Italia nell'arco di tempo preso in esame
possiamo così schematizzare le cose:
Da questo momento le tecniche vocali si moltiplicheranno, come, senza bisogno di consultare trattati, chiunque può trovare esemplificato nell'ascolto di un'opera qualsiasi. Ma, come detto in apertura, la loro identificazione, la relativa descrizione e la conseguente classificazione sistematica sono un lavoro ancora tutto da fare.
NOTE
(1) Garçia, M.,Traité complet de l'art du chant, Paris, 1847. Traduzione italiana: Trattato completo dell'arte del canto, Milano, Ricordi s.d.. Garçia, tuttavia, conosceva la nuova tecnica della «voix sombrée" fin dal 1832. Op. cit., p. VI, nota 2.
(2) Wicart, A., Le chanteur, Paris, Editions Vox 1931, pp. 230-238.
(3) Garçia, M., Mémoires sur la voix humaine, Paris, 1840. Traduzione italiana in: Trattato completo..., op. cit., pp. V-VI.
(4) Maffei, G.C., Delle lettere del S.or Gio. Camillo Maffei da Solofra Libri due: doue tra gli altri bellissimi pensieri di Filosofia, e di Medicina, u'è un discorso della Voce e del Modo, d'apparare di cantar di Garganta, senza maestro..., Napoli, Amato 1562. Edizione moderna in: Bridgman, N., «G.C.M. et sa lettre sur le chant», Revue de musigologie, XXXVIII, 1956, pp. 10-34.
(5) Vesalio, A., Andreae Vesalii suorum de humani corporis fabrica librorum Epitome, Basilea, 1543.
(6) Panconcelli-Calzia, G., Leonardo als Phonetiker, Amburgo, 1943.
(7) Uberti, M., «La definizione delle tecniche vocali nel canto», in 6° Convegno dell'Associazione Italiana di Acustica. Atti, Ivrea 1978.
(8) Isidoro di Siviglia, «Sententiae de Musica», in: Gerbert, M., Scriptores ecclesiastici de musica..., St. Blasien, 1784,1, p. 22.11 suo testo: «Suaves voces ...» verrà ripreso letteralmente almeno altre tre volte in secoli diversi: Aurelianus Reomensis (sec. IX), «Musica disciplina »(c.a. 840 50) in Gerbert, M., op. cit., I, pp. 34 35; «Dialogus de Musica», erroneamente attribuito a Odo Abate di Cluny (878/9-942) e presente in un ms. cassinese del XI sec. (cfr. Gerbert, M., op. cit., I, pp. 283 284); Hyeronimus de Moravia (sec. XIII), «Tractatus de musica», in Coussemaker, H. E. de, Scriptorum de musica medii aevi nova seriem..., Paris, 1864, I, p. 8.
(9) Negli anonimi «Instituta Patrum de modo psallendi», esistenti in un codice ms. di San Gallo, del X sec., si legge pure: «... rotunda, virili, viva et succincta voce psallatur». L'uso ripetuto, che si fa nello stesso trattato del termine: rotundus («... Cantus rotundetur et terminetur...», «... semper cum facultate vocum & rotunde suavi melodia peragamus...») induce a tradurlo nel senso ciceroniano di: perfetto, compiuto in tutte le sue parti anziché col letterale: rotonda, che assumerebbe un valore fonetico. Cfr. Gerbert M., op. cit., I, pp. 6-7.
(10) Bacilly, B. de, Remarques curieuses sur l'art de bien Chanter..., Paris, Chez l'Autheur 1679, Cap. Vll, «Des Voix propres pour la Maniere de Chanter», pp. 35-47.
(11) Vicentino, N., L'antica musica ridotta alla moderna prattica..., Roma, Barre 1555, c. 80 r.
(12) Banchieri, A., Cartella musicale nel canto figurato..., terza edizione,Venezia, Vincenti 1614, p. 146.
(13) Op. cit., p. 35, «Ceux qui ont la Voix naturelle, meprisent les Voix de Fausset, comme fausses & glapissantes; & ceux cy tiennent que le fin du Chant paroist bien plus dans vne Voix éclatante, telle que l'ont ceux qui chantent en Fausset, que dans vne Voix de Taille naturelle, qui pour l'ordinaire n'a pas tant d'éclat, bien qu'elle ait plus de justesse». P. 46: «... les Voix de Fausset font bien plus paroistre ce qu'elles chantent que les Voix naturelles; mais d'ailleurs elles ont de l'aigreur, & manquent souuent de justesse, à moins que d'estre si bien cultiuées, qu'elles semblent estre passées en nature».
(14) Mancini, G., Riflessioni pratiche sul canto figurato..., Terza edizione, Milano 1777 (la prima edizione apparve a Vienna col titolo: Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato nel 1774), p. 65.
(15) Ibidem, p. 61.
(16) Ibidem, p. 134.
(17) Tosi, P. F., Opinioni de' cantori antichi e moderni..., Bologna Dalla Volpe 1723, p. 13.
(13) Uberti, M. «Vocal techniques in Italy in the second half of the 16th century», in Early Music, X-4, 1981, pp. 486-495.
(19) Maffei, G. C., Delle lettere..., p. 198.
(20) Uberti, M., op. cit.
(21) Uberti, M., «Influenze della meccanica respiratoria ed articolatoria sul comportamento fonatorio della laringe», in 43° Congresso dell'AlTFEL - Aggiornamenti in fisiopatologia della comunicazione umana - Abstracts, Torino, Omega 1984.
(22) Della Corte, A., «Vicende degli stili del canto...», in Canto e bel canto, Torino, Paravia 1933, p. 244.
(23) Cfr. nota 7.
(24) Monteverdi, C., Lettere, dediche e prefazioni (a cura di D. De' Paoli), Roma, De Santis 1973, p. 267.
(25) Mancini, G. B., op. cit., p. 61.
(26) Vicentino, N., op. cit., c. 86r.
(27) Zacconi, L., Prattica di musica..., Venezia, Polo 1592, I, c. 52v.
(28) Mercuriali, G., Artis Gymnasticae apud antiqvos... libri sex, Venezia, Giunta 1599: «Liber tertius: De spiritus cohibitione, cap. 6; De vociferatione, & alijs vocis exercitationibus, cap. 7». «Liber Sextus: De spiritus cohibitionis facultatibus, cap. 4; De vocis exerxitationibus facultatibus, & primo de vociferatione, & cantu».
(29) Ibidem, iijv., «id certe tacere nequeo me saltem nouam, & à paucis forsan cogitatam... tam sumpsisse».
(29 bis) Bridgman, N., op. cit., p. 34.
(30) Storey, G., La riabilitazione funzionale respiratoria..., Torino, Edizioni Medico Scientifiche 1979: «L'impiego di una fascia per irrobustire i muscoli inspiratori», p. 139.
(31) Mercuriali, G., op. cit., c. 54r.: «Medici... duplicem spirationis cohibitionem in vsu habebant, alteram in qua vniuersi thoracis musculi tendebantur remissis, ...; alteram in qua abdominis quoque musculi tenduntur... in ambabus vero fascias quasdam adhibebant, quibus thoracem atque costas nec non ventrem cingentes felicius proposi tum assequebantur».
(32) Ibidem, c. 108r., «In resolutione linguae exerceri spiritu retento probauit Celsus sicut & Aetius in omni vocalis instrumenti resolutione...».
(33) Ibidem, c. 108r.-108v., «Amplius qui vel harnias vel crepaturas patiuntur... nullo pacto in retinendo spiritu exerceri debent... quoniam ... vix sanabiles hernias pariunt quod similiter tubicinibus, & cantoribus, dum nimis spiritum retinere conantur saepe numero solet evenire...»
(34) Ibidem, c. 110r., «Verumtamen illud Auicennae dictum semper memoria tenere oportet, quod magno longo tempore efficere vocem est timorosum, quodue ex praedictis vocis exercitationibus saepe numero hernias, aliasue crepaturas oriri contingit, sicuti nostrates sacerdotes, aut cantores certam fidem facere possunt».
(35) Mercuriali, G., De Arte Gymnastica Libri sex..., Venezia, Giunta 1601, p. 155
(36) Gounod, Ch., Mémoires d'un artiste..., Paris, 1896. Traduzione italiana: Milano l.T.E., 1935.
(37) Mendelssohn-Bartholdy, F., Lettere dall'Italia, Torino, Fògola 1983, p. 111-116.
(33) Le testimonianze di Mendelssohn e di Gounod sull'esecuzione delle musiche di Palestrina da parte della Cappella Sistina in un'epoca di decadenza di questo coro non possono evidentemente essere prese a documento del modo di cantare a cappella di due secoli e mezzo prima.
(39) Bridgman, N., op. cit., p. 19.
(40) Ibidem, p. 20.
(41) Ibidem, p. 20.
(42) Ibidem, p. 20.
(43) Uberti, M. - Schindler, O., «Contributo alla ricerca di una vocalità monteverdiana: il 'colore'», in Claudio Monteverdi e il suo tempo. Relazioni e comunicazioni al Congresso Internazionale. Venezia - Mantova - Cremona. 1968.
(44) Monteverdi, C., op. cit., p. 48.
(45) Maragliano Mori, R., «Monteverdi maestro di canto», La Rassegna Musicale, XXI 1951, pp.33-38.
(46) Ibidem, p. 86.
(47) Mancini, G. B., op. cit., p. 110.
(48) Garçia, M., op. cit., p. 9.
(49) Mancini, G. B., op. cit., pp. 210-211.
(50) Arteaga, S., Le rivoluzioni del teatro musicale italiano..., Bologna, Trenti, 1783, II, p.49.
(51) Niccolò Jommelli (1714-1774). (52) Arteaga, S., op. cit., II, pp. 50-51.
(53) Garçia, M., op. cit., p. XIV.
(54) Cfr.: Della Corte, A., «Vicende degli stili del canto dal tempo di Gluck al '900», in Canto e bel canto, Torino, Paravia 1933; D'Amico, F., Voce «Canto» in Enciclopedia dello spettacolo diretta da S. D'Amico, Roma, UNEDI 1954; Celletti, R., «La vocalità» in Storia dell'Opera, Torino, UTET 1977, III-1°.
(55) Garçia, M., op. cit., p. XIII.
(56) Ibidem, p. XI.
(57) In occasione della prima esecuzione italiana del Guglielmo Tell di G. Rossini (Lucca, 17 settembre).
(53) Cioè «in modo che i denti di sopra siano perpendicolarmente e mediocremente distaccati da quelli di sotto».
(59) Mancini, G. B., op. cit., pp. 111-112.
(60) Garçia, M., op. cit., p. 9.
(61) Figura F., Marchetti M., Passali D., «Fisiologia della voce nella recitazione e nel canto», Acta Phoniatrica Latina, Padova, La Garangola, VI-1, 1984, pp. 40-47.
(62) Uberti, M., «Il comportamento di un modello meccanico come ipotesi sulla formazione del vibrato vocale», in Convegno AIA 81. Atti del convegno, Roma, ESA 1981, pp.55-57.
(63) Heriot, A., The Castrati in Opera, London, 1956. Traduzione italiana: I castrati nel teatro d'opera, Milano, Rizzoli 1962, pp. 19-23.
(64) Benedetto da Norcia, San (480-543), La Regola, a cura di D. A. Lentini, Montecassino, 1947. cap. LIX, «De filiis nobilium aut pauperum qui offeruntur».
(65) Caccini, G., Le nuove musiche, Firenze, Marescotti, 1601. «Aria Ultima: Chi mi confort'ahimé».
(66) Luzzaschi, L., Madrigali per cantare et sonare a uno, e doi, e tre Soprani...: madrigali «Deh vieni ormai» e «Occhi del pianto mio», che, essendo scritti per le stesse tre cantatrici e concertati col clavicembalo, sottintendono da parte di queste la detta estensione vocale. Del resto Vincenzo Giustiniani nel suo «Discorso sopra la musica de' suoi tempi» (che A. Solerti, pubblicandolo in Le origini del melodramma, Torino, Bocca, 1903, assegna al 1628) dice che «L'anno santo 1575 o poco dopo)... Gio Andrea napoletano... Giulio Cesare Brancacci... Alessandro Merlo romano... cantavano un basso nella larghezza dello spazio di 22 voci, con varietà di passaggi nuovi e grati all'orecchie di tutti» (op. cit., p. 107).