«LE NOZZE DI TETI E DI PELEO»
ASPETTI ESECUTIVI
«Les noces de Pélée et de
Thétis». Venise, 1639 - Paris, 1654 |
«Le nozze di Teti e di Peleo». Venezia, 1639 - Parigi, 1654 |
Il recupero delle «Nozze di Teti e
di Peleo» dovrebbe implicare anche la loro proposta
spettacolare. A questo punto la palla passerebbe al musicista
pratico, la cui responsabilità prima sarebbe quella di
restituire l'opera in un codice interpretativo coerente con quello
compositivo di Francesco Cavalli; è esperienza ormai
consolidata dei cultori di musica antica, infatti, che quanto
più il linguaggio dell'esecutore riesce ad avvicinarsi a
quello del compositore, tanto più aumenta la
comprensibilità - e quindi la godibilità - delle
composizioni eseguite.
Il problema va oltre la musica. Ogni testo
scritto ha un valore formale ed un valore sostanziale, implicito ma
non evidente, in quanto ogni forma di comunicazione, che abbia una
delle sue dimensioni nel tempo implica comunque «un certo
ordine di procedere [...] che non si può
scrivere»(1). Se la
«pronunzia» di quel testo - dando a
«pronunzia» il senso più lato - non è
coerente con quella originale la comprensibilità diminuisce,
diminuisce la godibilità e, certamente nel caso della
musica, subentra la noia dell'ascoltatore.
L'esperienza consolidata di cui sopra
dimostra la validità di un'ipotesi di lavoro peraltro ovvia:
se vi fu un momento in cui il pubblico pagò per divertirsi
ascoltando musiche che oggi invece ci annoiano, probabilmente ad
annoiare non sono le musiche d'allora, ma le esecuzioni di oggi e
pertanto la ricerca deve essere rivolta a ritrovarne i modi
esecutivi originali. Le osservazioni che seguono vorrebbero essere
un contributo a questo intento.
I problemi che si porrebbero a chi si accingesse a mettere in scena le «Nozze» sono di tipo sia strutturale che interpretativo; prima di giungere al momento interpretativo, infatti, occorre provvedere all'assegnazione delle parti a determinati tipi di esecutori e, prima ancora, all'integrazione di alcuni brani dell'opera, la cui notazione in partitura è incompleta.
Problemi strutturali.
Integrazione dei brani corali e
strumentali la cui notazione in partitura è
incompleta.
Il ms. della Biblioteca Marciana di
Venezia che ci tramanda le «Nozze» presenta una decina
di brani d'assieme, per i quali il copista aveva previsto
accollature variabili fra i due e i sei righi, ma la cui notazione
è rimasta per un verso o per l'altro incompleta. E' un
aspetto comune a partiture almeno altrettanto illustri - una per
tutte: «L'incoronazione di Poppea» di
Monteverdi(2) - ma questo non
toglie che chi dovesse riproporre «Le Nozze» in forma
spettacolare si ritroverebbe, oggi come allora, a dover integrare
ciò che sulla carta manca; con lo svantaggio in più
di dover prendere decisioni che, ai giorni nostri, avrebbero da
essere scientifiche prima ancora che artistiche.
Della decina di brani nelle condizioni
dette, tre ritornelli, scritti in accollature di cinque righi ma
con solo tre parti notate, suonano all'orecchio in modo
soddisfacente, tanto da far pensare che essi siano completi e che i
vuoti siano soltanto il risultato di un'impaginazione frettolosa.
Non è certamente il caso delle composizioni vocali e
strumentali, delle quali è notata soltanto la parte del
basso.
Stante questo vuoto nella notazione,
l'esecuzione pone problemi che rientrano in quello più
generale del restauro: altra cosa, infatti, è fare un
edizione filologica a stampa per studiosi ed altra è far
rivivere l'opera per un pubblico normale. Per nostra fortuna, il
dilemma fra conservazione e restauro - cioè fra esecuzione
letterale ed esecuzione integrata delle parti mancanti - non
è così drammatico come per le arti visive in quanto
ad ogni nuova esecuzione l'integrazione apportata all'opera
potrà essere modificata o rimossa. Diciamo tuttavia che per
l'esecutore moderno si porrebbe un problema di onestà
intellettuale: quanto gioverebbe o nuocerebbe di più al
recupero delle «Nozze» un'esecuzione che, ritrosa ad
aggiungere note all'originale, ne lasciasse evidenti le amputazioni
e quanto invece un'altra che, coprendole con abili interventi di
chirurgia plastica, rischiasse di dare una conoscenza
dell'originale falsata? (E' la domanda che si pone l'ascoltatore
avveduto ad ogni esecuzione della Turandot di Puccini).
Rimandando ad altra occasione le
discussioni epistemologiche dirò soltanto le soluzioni
tecniche che mi sembrerebbero ragionevoli nel caso di esecuzioni
«restaurate».
Soluzione minima. Si esegue
soltanto la parte di basso, integrata dalla normale e comunque
obbligatoria realizzazione del basso continuo. L'ascoltatore
avvertirebbe un vuoto improvviso nel fluire dell'opera e,
mutatis mutandis, si troverebbe nelle condizioni
dell'osservatore di un affresco restaurato, le cui parti mancanti
siano state lasciate in bianco.
Soluzione media. Esecuzione come
sopra con il vuoto di una parte evidente di canto, colmato
dall'aggiunta di diminuzioni sul basso da parte di uno strumento
melodico. Per quanto questa pratica musicale, più che
centenaria al momento della prima rappresentazione delle
«Nozze», tendesse ormai all'esaurimento, la soluzione
sarebbe certamente proponibile nel caso di un'esecuzione restaurata
in quanto ancora l'anno prima il fagottista spagnolo Bartolomeo
Selma de Salaverde aveva pubblicato, proprio a Venezia, il
madrigale «Vestiva i colli» del Palestrina e
«Susanna» di Orlando di Lasso, passeggiati per basso (e
«Vestiva i colli» anche per soprano)(3). Come nel caso della soluzione minima
l'ascoltatore percepirebbe lo stacco, ma l'effetto, per continuare
nella metafora dell'affresco restaurato, potrebbe essere ricondotto
a quello di un dipinto i cui vuoti siano stati riempiti con
retinature di colore opportuno.
Soluzione massima. Ricostruzione
delle voci mancanti assumendo come modello i brani polifonici delle
«Nozze» notati per intero. Eseguito da un abile
musicista il restauro potrebbe anche superare la prova di un
ascolto esperto mentre onestà intellettuale vorrebbe che le
integrazioni fossero in qualche modo segnalate all'ascoltatore.
In situazione reale le scelte definitive
sarebbero determinate dalle contingenze e da ragioni di politica
culturale.
Assegnazione delle parti vocali a
cantanti d'oggi.
Così enunciato e senza la
conoscenza della partitura, il problema potrebbe sembrare riferito
soprattutto all'assegnazione a cantanti d'oggi di parti maschili,
originariamente affidate a castrati. Nel caso delle
«Nozze» la difficoltà si pone per un personaggio
soltanto: quello di Meleagro/Discordia; tutti gli altri infatti,
hanno estensioni vocali perfettamente coerenti con il personaggio
maschile o femminile che devono rappresentare. La parte di
Meleagro, invece, è scritta in chiave di contralto con una
tessitura che si muove prevalentemente al di sopra del Do centrale
nei recitativi ma che sovente ne scende al di sotto.
Come quasi sempre in questi casi, le
scelte possibili sono tre: un contraltone che possa dare corpo ai
bassi senza dover appesantire la voce, un tenorino che canti senza
fatica sopra il Do centrale o un falsettista. In realtà la
sola musicalmente valida è la prima: non è possibile
recitare una parte insinuante come quella di Discordia - ma neanche
quella affettuosa di Meleagro, amico fedele di Peleo - cantando
negli acuti come dovrebbe fare il tenorino e meno che meno lo si
potrebbe fare con la fissità di timbro che le esigenze di
impedenza acustica impongono alla voce di falsetto.
Non deve suscitare apprensioni il fatto
che, nella quarta scena del terzo atto, Discordia si presenti
«in habito, e voce di Nereo» cantando una parte scritta
in chiave di tenore, la cui estensione, sommata a quella di
Discordia/Meleagro parrebbe sostenibile soltanto da una Yma Sumah.
Discordia/Nereo è un tenore che, presentatosi in scena con
un abito ovviamente uguale a quello di Discordia/Meleagro, e magari
a volto coperto, dopo aver fatto una mutazione a vista canta la
parte di Nereo. Il gioco delle mutazioni a vista è quello
che sarà già servito a Discordia/Meleagro per rendere
evidente la trasformazione da un personaggio nell'altro.
Determinazione dello strumentario e
assegnazione delle parti ai diversi strumenti.
Le indicazioni strumentali esplicite nella
partitura delle «Nozze» sono pochissime:
1. avanti il Prologo «La Fama suona
la Tromba, di poi dà principio al Canto»;
2. nel testo - e soltanto nel testo - del
«Choro di Cavalieri» della quarta scena del primo atto
è ripetuta più volte la frase «Corni, è
Tamburi, è Trombe»;
3. nella settima scena del secondo atto
c'è una «Sinfonia di Viole».
Per il resto ci troviamo di fronte a
cambiamenti di chiave nello stesso rigo da brano a brano, che si
riferiscono certamente ad altrettanti cambiamenti di strumento,
sulla cui identità, però, nessuno potrebbe
onestamente giurare.
L'inizio dell'opera, dicendo che «La
Fama suona la Tromba» senza dare alcun testo musicale,
implica un'integrazione da parte degli esecutori. Essendoci
pervenuto il «Modo per imparare a sonare di tromba» di
Girolamo Fantini(4), pubblicato
come il libro del Salaverde l'anno precedente, onde evitare
riecheggiamenti di segnali militari odierni potrebbe essere saggio
avvalersi di una di quelle composizioni evitando altresì di
riprendere altri brani delle «Nozze», che hanno
certamente connotazione espressiva diversa da quella propria del
Prologo.
L'immediata ripetizione dell'inciso
musicale sul quale il «Choro di Cavalieri» canta
«Corni, è Tamburi» da parte di due strumenti
acuti potrebbe far pensare che proprio di corni da caccia si
tratti. Allo stesso modo gli altri due strumenti che eseguono le
due misure di crome ribattute, immediatamente precedenti le parole
«è Trombe» parrebbero essere trombe. Tuttavia,
mentre il significato della parola «tromba» in
quest'anno 1639 è sicuro, affermare che in quell'anno e in
quella situazione la parola «corni» significhi
già «corni da caccia» potrebbe essere
imprudente. E' vero che nel 1635 Mersenne aveva rappresentato fra
gli strumenti a fiato un corno da caccia ritorto, ma fare una
scelta strumentale adducendo soltanto l'autorità di
quell'incisione sarebbe eccessivo. Se poi si considera che nei
brani polistrumentali delle «Nozze» compare
ripetutamente una coppia di righi in chiave di sol - talvolta
notati ed altre no - sembra più logico pensare che questi
sottintendano sempre una stessa coppia di cornetti ai quali in
questa particolare occasione sono affidati soltanto due squilli
sulle note del primo rivolto dell'accordo di sol maggiore.
Più plausibile l'impiego di trombe
vere e proprie per le «Chiamate» tendo conto del
precedente illustre dello «Orfeo» di
Monteverdi(5) - maestro, non
dimentichiamolo, di Cavalli - che le impiega nella «Toccata
che si suona avanti il levar della tela».
Ad allontanare l'idea che le
«viole» della «Sinfonia» possano essere da
gamba giova ancora la lettura dello strumentario dello stesso
«Orfeo», dove le «Dieci Viole» sono
«da brazzo» così come lo sono, evidentemente,
«Duoi contrabassi de Viola», ben distinti da «Tre
bassi da gamba».
Per il resto, in mancanza di altre
indicazioni saremmo costretti ad affidarci al nostro «buon
gusto e fino giuditio»(6) se
il caso non volesse che lo stesso Monteverdi non avesse già
dovuto occuparsi di una «Favola di Teti e Peleo».
Correva l'anno 1616 e Ferdinando duca di Mantova gli aveva fatto
inviare da Alessandro Striggio una «favola marittima»
del conte Scipione Agnelli perché la musicasse. Il lavoro si
sarebbe dovuto rappresentare in occasione delle nozze del Duca
stesso con Caterina de' Medici. Al musicista il progetto non va a
genio e gli argomenti che adduce per rifiutare l'incarico - impresa
che infine gli riuscirà - sono per noi un insperato ed
impareggiabile breviario di estetica anche per l'allestimento delle
«Nozze» di Cavalli, ma in questa sede sono costretto a
rimandare alla lettura degli scritti monteverdiani chi vi fosse
interessato(7).
Problemi interpretativi.
Espressione degli affetti.
Non è esagerato affermare che i
problemi di prassi esecutiva di ogni tempo e di ogni scuola
nazionale sono riconducibili all'espressione degli affetti.
Riconoscendo al termine «affetti» il senso lato che gli
compete, è evidente che i musicisti di ogni tempo e di ogni
paese hanno sempre impiegato i mezzi più idonei ad esprimere
e rappresentare le emozioni nei modi propri della loro cultura; di
conseguenza il recupero delle prassi esecutive, prima che la
riscoperta e il recupero di formule musicali, è la scoperta
e l'appropriazione delle culture cui esse appartengono.
Anche circoscritto alle
«Nozze», il problema sarebbe troppo vasto e complesso
per essere ridotto a paragrafo di una comunicazione ed infatti esso
costituisce la base di quella di Francesca Gualandri: «Il
gesto scenico nelle Nozze di Teti e Peleo». I paragrafi che
seguono non saranno che aspetti particolari della rappresentazione
in musica degli «affetti» di quell'opera.
Realizzazione del
recitativo.
Limito il mio discorso al recitativo
perché le arie, oltre a non presentare problemi
fondamentalmente diversi da quelli delle analoghe composizioni
coeve, sono talmente belle da poter uscire indenni anche
dall'insulto di esecuzioni non rispettose della prassi del
tempo.
Ho già avuto occasione
altrove(8) di osservare che i
recitativi, prima che composizioni musicali, sono documenti
dell'actio teatrale nell'ambiente culturale in cui sono stati
scritti; si tratta ora di vedere se quelli delle
«Nozze» presentino aspetti particolari.
Circoscrivendo le valutazioni del libretto
di Oratio Persiani, così come riordinato e svolto nella
partitura del Cavalli, ai suoi aspetti spettacolari, si può
dire che l'insieme delle alternanze di scene, di situazioni, di
dialoghi, di affetti, di cori, di sinfonie, di danze, ecc. è
talmente vario da rendere agevole il compito, sia registico che
musicale, di chi dovesse mettere in scena l'opera. Le
difficoltà incomincerebbero invece quando si trattasse di
restituire nella loro integrità i lunghi monologhi di cui le
«Nozze» sono costellate. Ognuno di essi si dilunga,
è il caso di dirlo, a svolgere la situazione attraverso uno
sviluppo virtuosistico del tema degli affetti propri della
situazione stessa: variazioni e contrasti psicologici,
ragionamenti, metafore, ecc., che, recitate in prosa, potrebbero
anche essere stimolanti per l'intelligenza dell'attore. Per un
cantante la situazione sarebbe più disagevole: mentre fra
l'attore e il testo non ci sono intermediari, il cantante è
chiamato ad interpretare l'interpretazione che, prima di lui, il
compositore ha dato del testo poetico traducendolo in musica. Nel
caso dei recitativi, poi, il vincolo è particolarmente grave
in quanto, non vivendo la loro melodia di vita propria, occorre
dare alle parole il significato espressivo più confacente
ricavandolo dall'andamento delle note, che imitano la loquela, dai
valori delle figure musicali, che corrispondono ai diversi gradi di
concitazione del discorso e dalle pause, che hanno, prima di tutto,
il significato di pause teatrali. Tutto questo implica che il
cantante incaricato di interpretare le «Nozze»,
qualunque fosse il suo ruolo, dovrebbe essere innanzitutto un
grosso attore.
Tanto messo in evidenza, sta però
il fatto che i recitativi di quest'opera mostrano essere la somma
delle esperienze fino ad allora maturate dall'invenzione del
«recitar cantando» e che il cantante-attore da noi
prefigurato vi troverebbe abbondanza di stimoli. Il tono oratorio
di Cavalli è estremamente vario: le frasi sono pesate e
fatte pesare, le parole concitate si alternano a quelle
sottolineate, gli incisi ariosi si susseguono a quelli discorsivi,
il procedere melodico passa dalla recitazione sulla stessa nota
all'uso di intervalli che raggiungono la tredicesima(9), le pause sono significative e
sottintendono una gestualità molto ampia. Questo tipo di
scrittura musicale, che implica una recitazione teatrale
accentuata, sembra pensato per un ambiente molto vasto, cioè
per un pubblico che guarda ed ascolta anche da lontano ed è
inoltre coerente con le considerazioni di Monteverdi sulle
caratteristiche di una «favola marittima». Potrebbe
essere inoltre un indizio sulle caratteristiche architettoniche del
Teatro «San Cassiano», del quale si sa oggettivamente
poco.
Realizzazione delle appoggiature
vocali.
La realizzazione di un recitativo
così teatrale come quello appena delineato implica anzitutto
l'impiego di un mezzo musicale quale è l'appoggiatura
vocale. E' questa un'affermazione talmente banale da vergognarsi a
farla se non fosse che questo abbellimento non solo è
ignorato dai manuali scolastici moderni di teoria - per tacere poi
delle enciclopedie - ma anche dalla maggior parte degli interpreti
che pure fanno professione di filologia esecutiva. La prassi di
convertire in appoggiatura quella di due note uguali su cui cade
l'accento della parola è documentata almeno fin dai tempi
dello Zacconi(10), mentre il
Cerone ci spiega anche il perché della doppia morale
musicale di scrivere in un modo intendendo che si canti in un
altro(11). Il che non toglie che
io abbia sempre trovato gli esecutori reticenti non solo ad
applicarla, ma anche a verificare sperimentalmente che alla mancata
realizzazione delle appoggiature si deve tanta parte della
«noia del recitativo». E' certo che la realizzazione
delle appoggiature vocali dà un sorprendente sapore di
modernità ai recitativi antichi, che sconvolge un po' gli
amanti dell'esotismo storico. E' altrettanto certo che, nel caso
auspicato di una messa in scena delle «Nozze», sarebbe
bello rendere giustizia ai recitativi del Cavalli cantandoli, per
quanto ne siamo capaci, nel modo più vicino a quello in cui
li si cantava allora.
Realizzazione di diminuzioni e
passaggi.
Quelli che per gli esteti sono
madrigalismi, per il musicista pratico, ovunque si incontrino, essi
sono diminuzioni realizzate, dato che di queste hanno
inequivocabilmente la struttura. Contraddicendo le proprie,
esplicite richieste di cantare senza passaggi, gli autori ne hanno
sempre costellato i recitativi collocandole in luoghi topici,
rappresentanti in qualche modo affetti, immagini od azioni. Questi
due fatti - che gli autori dovessero chiedere ai cantanti di
vietarsi l'uso di passaggi, ma che, nello stesso momento, non
riuscissero ad esprimersi senza farne uso essi stessi - la dicono
lunga sul posto occupato dalle diminuzioni nel linguaggio musicale
di allora e dell'importanza di recuperarne oggi un'uso corretto ai
fini espressivi. E' ragionevole presumere che ogni compositore ne
abbia fatto un uso personale e che sia possibile compilare per
ognuno di essi - quando non per ogni opera - veri e propri
«vocabolari» della rappresentazione degli affetti,
capaci di suggerire all'esecutore moderno altre diminuzioni, utili
a dare varietà ed espressione ai recitativi e tuttavia
coerenti con la scrittura di questi. Diminuzioni e passaggi si
trovano ovviamente anche nelle arie, ma, siccome in queste la
scrittura a note minute è usata tanto a fini espressivi che
semplicemente decorativi, almeno in questa sede è prudente
circoscrivere l'analisi ai recitativi.
Il confine tra scrittura diminuita e
semplici andamenti melodici è opinabile, tuttavia possiamo
dire che, nelle «Nozze», questi luoghi sono almeno
venticinque. Numero non grande, ma statisticamente già
significativo. Non scenderò qui in particolari e mi
limiterò ad osservare che le formule retoriche impiegate,
peraltro di significato espressivo inequivocabile indipendentemente
da ogni altra considerazione, richiamano, per esempio, quelle
altrettanto inequivocabili e teorizzate già venticinque anni
prima dal Brunelli(12). Il fatto
sembrerebbe ridimensionare l'importanza di questo tipo di analisi,
ma l'osservazione che cinque di questi incisi diminuiti,
cioè il 20% del totale, si trovano nella parte di
«Discordia in abito di Meleagro» - nel momento in cui
essa, cioè, con modi insinuanti si adopera per mandare a
monte le nozze di Teti e di Peleo - e che invece la stessa si
esprime con un recitativo soltanto sillabico nelle scene di
situazione psicologica diversa, lascia intravedere un uso
determinante delle diminuzioni scritte, da parte di Cavalli, per
delineare i personaggi. E' cioè evidente che questo aspetto
della partitura costituisce un elemento non secondario per la
ricostruzione dei personaggi dell'opera.
(1) VICENTINO, Nicola, L'antica musica ridotta alla moderna prattica, Roma, Barre, 1555 (ed. anastatica: Kassel, Bärenreiter, 1959), lib. IV, cap. XXXXII, f. 94v, segnato per errore come f. 88.
(2) MONTEVERDI, Claudio, La coronatione di Poppea, "Codice di Napoli", ed. anastatica Forni, Bologna, 1994.
(3)SELMA DE SALAVERDE, F. Bartolomeo de, Primo libro. Canzoni Fantasie e correnti. Da suonar ad una 2. 3. 4. Con basso continuo, Venezia, Bartolomeo Magni, 1638.
(4)FANTINI, Girolamo, Modo per imparare a sonare la tromba, tanto di guerra quanto musicalmente in organo, con tromba sordina, col cimbalo, e ogn'altro istrumento, Francofort (sic), Daniel Vuastch, 1638.
(5) MONTEVERDI, Claudio, L'Orfeo, Venezia, Riccardo Amadino, 1609 (ed. anastatica: Firenze, S.P.E.S., 1993).
(6)FRESCOBALDI, Girolamo, Toccate e partite... Libro primo, Roma, Nicolò Borboni, 1615-1616, epistola «Al lettore», p. non num. 3.
(7)ID. in DE'PAOLI, Domenico, a cura di, Lettere, dediche e prefazioni, Roma, De Santis, 1973. Lettere nn. 21, 22, 23, 24 e 25 (pp. 85-99).
(8) UBERTI, Mauro, Il recitativo musicale come documento dell'actio teatrale, Cahiers de l'I.R.H.M.E.S, 3, Slatkine, Genève, 1995. - ID., Il recitativo delle origini: Cavalieri, Peri e Caccini, Comptes rendus du Colloque "Récitatif et déclamation théâtrale en Europe aux XVIIe et XVIIIe siècles", 18-19 septembre 1998, Université de Tours,1998.
(9) L'autore non esita a fare uso di salti di dodicesima come nel monologo di Giove, che apre la quinta scena del primo atto.
(10)ZACCONI, Lodovico, Prattica di musica..., Venezia, Polo, 1592", Libro Primo, Cap.LXIII, pag 56: "In che modo si possano le figure Musicali cantar con gratia".
(11)CERONE, Pedro, El Melopeo y Maestro, Napoli, Gargano, 1613, pag. 541: "... del modo de cantar con Acento...".
(12)BRUNELLI, Antonio, Varii esercitii... per una e due voci, Firenze, Zanobi Pignoni, 1614. Ed. moderna: Erig, Richard, a cura di, Zürich, Musikverlag zum Pelikan, 1977.