MAURO UBERTI


A quali toni l'orecchio è più sensibile

Il trucco del tenore per rubare l'applauso

La Stampa, Tuttoscienze, Mercoledì 22 dicembre 1982


Se si domanda ad un gruppo di ascolto qual'è l'intensità alla quale suoni puri di diversa frequenza appaiono della stessa intensità di una frequenza di mille Hertz presentata come punto di riferimento, la media delle risposte dà come risultato l''audiogramma normale qui rappresentato.

Avevo un cane di nome Tobia. Era un basset-hound dalle orecchie tanto lunghe che se le pestava e che avrebbe preteso di dormire nel letto matrimoniale. Per questo ogni sera dovevo legarlo nella sua cuccia. Ma Tobia non si rassegnava e, nel mezzo della notte, prendeva a guaiolare con un gemito acutissimo, che mi faceva balzare dal letto in preda ad un'ansia incontenibile. Una carezza e il maledetto tornava a dormire per il resto della notte. Mia moglie, invece, no e mi accusava di amarla meno del cane perché se ad agitarsi era lei io continuavo a russare. È vero, ma che colpa ne ho io se ho il sonno duro e non sento mia moglie che si alza? Non è vero che io l'ami meno del cane, è vero invece che se lei di notte emettesse dei gemiti acuti come quelli di Tobia balzerei agitatissimo dal letto.

Tutto dipende dalla curva di risposta dell'orecchio. Non è una scusa, ma un fenomeno fisiologico ben noto che ha grosse conseguenze pratiche nella vita quotidiana e, fra l'altro, nell'uso che facciamo della voce.

Il nostro orecchio non ha la stessa sensibilità per tutti i suoni. Per quelli bassi è piuttosto duro, ma in presenza di suoni progressivamente più acuti reagisce sempre meglio finché, nella regione di altezza che va dai 2500 ai 5000 Hz (la zona acustica dei gemiti di Tobia), avverte facilmente anche stimoli sonori molto deboli. Poi, verso le frequenze più alte, la sua sensibilità, torna a peggiorare.

Le cause di questa discontinuità nella risposta alle diverse altezze tonali sono più di una e ancora da esplorare bene, ma quelle che ci interessano ora sono gli effetti nella comunicazione quotidiana.

Chi ha bisogno di farsi sentire, consciamente o inconsciamente tende a concentrare i segnali acustici in questa zona. Non a caso le sirene dei mezzi di soccorso dànno suoni così acuti. Limitando le osservazioni alla voce possiamo osservare come, ogni volta in cui la comunicazione assume il carattere di necessità, essa tenda a viaggiare sulle frequenze acute.

Quanto più, per esempio, il bambino è piccolo e bisognoso di cure, tanto più la sua voce è acuta e, di conseguenza, il pianto del neonato colpisce nella regione di maggiore sensibilità l'orecchio della madre tesa ansiosamente, del resto, a coglierlo durante il sonno.

Gli adulti fanno qualcosa di equivalente ogni volta che devono gridare per farsi sentire. Il comportamento fonatorio che adottiamo istintivamente quando dobbiamo sostenere un dialogo in mezzo al frastuono del traffico cittadino è rivolto essenzialmente a raggiungere due obiettivi: uno, conscio, è quello di aumentare l'intensità della voce; l'altro, inconscio, è quello di spostare l'energia acustica verso la regione di massima sensibilità dell'orecchio rendendo più acuto il nostro timbro abituale.

Il giochetto, però, è efficace soltanto sulle brevi distanze, al di là delle quali entrano in gioco le leggi di propagazione dei suoni (ci sono di mezzo soprattutto fenomeni di riflessione), per le quali le frequenze acute si esauriscono in minore spazio di quelle basse.

È esperienza comune che se ci si avvicina ad un complesso di musica leggera che suona all'aperto, le prime a giungere all'orecchio sono le note basse dell'accompagnamento. Gli strumenti più acuti si fanno sentire da più vicino e soltanto a distanza relativamente breve è possibile avere una percezione equilibrata dell'insieme.

Per gli stessi motivi, quando gridiamo producendo un suono squillante costituito prevalentemente da frequenze acute, noi, che abbiamo le orecchie molto vicine alla bocca, abbiamo l'impressione di aver emesso una voce potente come quella di Stentore mentre per gli ascoltatori il risultato è alquanto diverso. Gli attori, invece, che empiricamente sono giunti a capire come i suoni bassi vadano più lontano, adottano in teatro voci di petto dal timbro profondo.

Non si può dire altrettanto di certi cantanti dotati di voce non molto potente, che, tuttavia, voglio praticare repertori inadeguati alle loro possibilità. Di solito essi adottano tecniche vocali adatte a produrre timbri che, nelle intenzioni, vorrebbero essere squillanti e non sono invece che metallici. Queste voci, ascoltate da vicino, emergono dall'impasto orchestrale e riescono anche ad ingannare il direttore e i compagni di esecuzione, colpiti, come ormai sappiamo, nella zona di maggiore sensibilità dell'orecchio.

In pochi metri, invece, esse si esauriscono e, paradossalmente, può accadere che in loggione - il punto più lontano dall'orchestra - lo stesso cantante venga percepito meglio quando canta piano, ma con tecnica opportuna, di quando canta, forte.

Tobia, tutto considerato, aveva capito di più: quando doveva farsi udire da lontano latrava con voce di basso profondo.