MAURO UBERTI

IL RECITATIVO DELLE ORIGINI:
CAVALIERI, PERI E CACCINI

Comptes rendus du Colloque
“Récitatif et déclamation théâtrale en Europe aux XVIIe et XVIIIe siècles”.
Université de Tours, 18-19 septembre 1998.

 

     Parlare del recitativo delle origini nei limiti ristretti di una comunicazione è come pretendere di dare brevi cenni sull'infinito, ma si dà il caso che, essendo un musicista pratico, in vista del quarto centenario del melodramma io abbia da curare l'esecuzione di almeno una delle tre «opere in musica» dell'anno 1600 e che pertanto abbia l'interesse professionale di mettere a punto delle griglie di lettura ad uso mio prima ancora che degli esecutori che dovrò guidare. E' come dire che se, a loro tempo, il poeta ed il musicista hanno costruito il loro discorso facendosi carico rispettivamente della dispositio e dell'elocutio, a me, musicista di quattro secoli dopo, incombe il compito di ritrovare i modi della pronuntiatio più opportuni. Se il codice di comunicazione adottato nella pronuntiatio o, meglio, nell'actio teatrale non sarà coerente con quelli della dispositio e dell'elocutio la comunicazione diminuirà, diminuirà la comprensione e interverrà la noia.
     E' di questo che desidero parlare e a questo fine mi è parso che convenisse prendere le mosse dalla rivisitazione delle dedicatorie e delle prefazioni delle tre opere. L'ordine in cui esaminerò gli argomenti sarà quello che mi pare più conveniente per trarne le indicazioni di prassi esecutiva, che mi interessano a fini pratici.

     Delle tre «opere in musica», indicando tutte e tre col termine che il Cavalieri usa per definire la sua Rappresentatione di Anima, et di Corpo1, proprio questa è la più ricca di indicazioni sulla prassi in quanto dotata dell'ampia epistola di Alessandro Guidotti «A' Lettori». L'indicazione più generale che se ne può trarre mi pare quella relativa allo spazio d'ascolto:

«Gli stromenti siano ben sonati, e più, e meno in numero secondo il luogo, ò sia Teatro, overo Sala, quale per essere proportionata à questa recitatione in Musica, non doveria esser capace al più, che di mille persone, le quali stessero à sedere commodamente, per maggior silentio, e soddisfattione loro: che rappresentandosi in Sale molto grandi, non è possibile far sentire à tutti la parola, onde sarebbe necessitato il Cantante à forzare la voce, per la qual causa l'affetto scema; e la tanta Musica, mancando all'udito la parola, viene noiosa».

     Il limite di essere «capace al più, che di mille persone» non basta a stabilire con ragionevole approssimazione quali potessero essere le dimensioni di una simile sala; occorre tener conto, infatti, dell'ingombro dell'abbigliamento del tempo. Se, tanto per avere un riferimento sicuro, esaminiamo le incisioni (fig. 1: 51k) che illustrano Nobiltà di Dame, il trattato di danza pubblicato a Venezia nello stesso anno 2, ci rendiamo conto che, per quanto in Italia gli abiti soprattutto quelli femminili avessero linee più sobrie (si fa per dire) che in Francia e in Spagna, una dama seduta doveva occupare pur sempre una superficie superiore al metro quadrato e il suo cavaliere non molto di meno; motivo per cui l'occupazione media di un metro quadrato di spazio per persona è una valutazione prudenziale. Se poi teniamo il conto degli ambulacri necessari al passaggio di mille personaggi così abbigliati, dobbiamo convenire che duecento metri quadrati sono una valutazione inferiore al reale e che, tuttavia, sommati ai mille occupati dagli stessi accomodati in poltrona, danno come risultato mille e duecento metri quadrati; il che è come dire una sala di almeno trenta metri per quaranta. Non so a quale sala romana potesse riferirsi il Guidotti, ma è certo che, pur indicando questa capacità come limite massimo, egli lascia capire che la Rappresentatione è concepita per un pubblico numeroso e per un ambiente piuttosto vasto.

     Le conseguenze musicali dell'ambiente teatrale di destinazione ricadono sulla tecnica vocale, sulla scelta degli esecutori e sul tipo di recitazione. La richiesta fatta qualche riga prima, che il cantante «esprima bene le parole», non indica di per sé un determinato tipo di tecnica vocale 3 mentre l'indicazione delle dimensioni di una sala da mille persone come quelle oltre le quali «sarebbe necessitato il Cantante à forzare la voce, per la qual causa l'affetto scema; e la tanta Musica, mancando all'udito la parola, viene noiosa» - e direi che in questo contesto la «tanta Musica» abbia da essere interpretata come «tanta voce» - implica che la tecnica desiderata non fosse da cappella ma da camera. La precisazione non è superflua perché nel XVII secolo si trovano i nomi degli stessi cantori negli elenchi delle cappelle pontificie e nelle descrizioni di concerti privati nelle «camere» dei porporati romani o addirittura del papa regnante, il che fa pensare che essi facessero uso di vocalità diverse a seconda delle necessità. Ma perché un cantante possa esprimere gli affetti e farsi sentire in una sala di milleduecento metri quadrati senza «forzare la voce» occorre che i suoi mezzi vocali naturali lo consentano e allora il discorso si allarga ai criteri di reclutamento dei cantanti professionisti nella Roma pontificia dei secoli XVI e XVII. Piuttosto diventa fondamentale, per quanto riguarda specificamente il recitativo, lo stile di recitazione che, in un ambiente vasto deve, come si sa, farsi ampia ed incisiva.

     Nel caso dell'Euridice di Jacopo Peri 4 sappiamo con certezza che essa fu eseguita la sera del 6 ottobre 1600 nella sala delle statue di Palazzo Pitti con inviti ristretti e le dimensioni dell'ambiente ci dicono molto anche sul modo di cantarvi. Lasciano indovinare molto sugli spazi anche l'esiguità del numero e la poca varietà degli strumenti citati nell'epistola «A Lettori» - un gravicembalo, un chitarrone, una lira grande e un liuto grosso - nonché la riduzione al minimo delle parti strumentali in partitura: una di soprano ed una di basso nei ritornelli e due parti di soprano ed una di basso per rappresentare il triflauto di Tirsi.

     Dell'Euridice di Giulio Caccini 5, pubblicata nel 1600 ma eseguita due anni dopo (5 dicembre 1602) si legge nel Diario delle feste medicee tenuto da Cesare Tinghi 6:     

«Et al dì detto a ore 24, avendo S.A. fatto ordinare una pastorale per dare un poco di gusto con piacere a' sudetti signori, et avendo fatto invitare un bel numero di gentildonne, montorno su nella sala detta del sig. Don Antonio, et fu detta Comedia fatta et cantata in musica guidata da Giulio Caccini romano, musico di S.A.S., nominata la Euridice del sig.re Ottavio Rinuccini; et durò ore due con grandissimo gusto di S.A. et de' suddetti signori; et fatta questa ogniuno fu licenziato e andorno alle case loro».     

     E' evidente che gli ambienti in cui furono rappresentate le due Euridici implicano di per sé un uso più intimo della voce e modi di recitazione più rivolti alla ricerca di sfumature espressive.

     Se io ho incominciato occupandomi dello spazio delle sale d'ascolto, per il Guidotti la prima preoccupazione era un'altra:     

« ... : volendola dico rappresentare, par necessario, che ogni cosa debba essere in eccellenza, che il cantante abbia bella voce, bene intuonata, e che la porti salda, che canti con affetto, piano e forte, senza passaggi, & in particolare, che esprima bene le parole, che siano intese, & le accompagni con gesti, & motivi non solamente di mani, ma di passi ancora che sono molto efficaci à muovere l'affetto».     

     Tralasciando l'ovvia preoccupazione che la voce sia «bella», «intuonata», «salda» e «che il cantante ... esprima bene le parole», nemmeno la richiesta che egli «canti con affetto, piano e forte» si presenta come novità in quanto è una raccomandazione già ricorrente in tutta la trattatistica cinquecentesca; anzi, l'osservazione che «il passar da uno affetto all'altro contrario, come dal mesto all'allegro, dal feroce al mite, e simili, commuove grandemente» appare come la naturale continuazione dell'ampia letteratura di precetti sull'argomento, pubblicata da Federico Mompellio ormai venticinque anni fa in un famoso articolo 7. Le richieste nuove ed importanti sono piuttosto altre due: «che canti ... senza passaggi» e «che ... accompagni [le parole] con gesti, & motivi non solamente di mani, ma di passi ancora che sono molto efficaci à muovere l'affetto».

     Pare a me che la prescrizione di «cantare senza passaggi» debba essere interpretata come ulteriore sottolineatura del desiderio che la rappresentazione degli affetti sia fatta coi mezzi propri della parola piuttosto che con quelli delle note 8. Lo stesso discorso viene di fatto ripetuto per «gli stromenti», dei quali si dice che «si debbano suonare ... da persone che vadino secondando chi canta, e senza diminuzioni». Tuttavia l'uso di rappresentare immagini ed affetti per mezzo di melismi gli è talmente connaturata e ancor più, come vedremo più avanti, è connaturata a Caccini che troviamo la sua scrittura cosparsa di diminuzioni realizzate. Si veda, per esempio, come soltanto nel monologo del Tempo ne compaiano tre in corrispondenza delle parole «fugge», «sorgete» e «vola» (es. 1: 19k). Si tratta di luoghi comuni dell'espressione vocale rinascimentale e barocca, che, per noi ascoltatori moderni, non hanno più un significato immediato, ma che allora facevano evidentemente parte del linguaggio musicale corrente, tanto è vero che quando più avanti nel testo ritorna la parola «fugge» egli torna ad intonarla con un melisma quasi identico al primo (es. 2: 11k).

     Dei tre Autori dell'anno 1600 il più parco di melismi è Peri che ne fa tuttavia, anch'egli, un uso molto tradizionale; si vedano i melismi su «Vaghe Ninfe amorose» (Ninfa del Coro) e «Non vede un simil» (Arcetro) dell'es. 3 (15k).

     Il più prodigo è Caccini che, nella prima scena, quando Pastori e Ninfe fanno ancora festa per il matrimonio di Orfeo ed Euridice, fa esprimere la loro gioia per mezzo di numerosi ed ampi «giri di voce» (es. 4: 18k).

     Conoscendo le Nuove musiche 9 non stupisce il fatto che il loro Autore ne faccia uso anche in una favola in stile rappresentativo; del resto nella sua dedica al Conte Giovanni Bardi di Vernio egli preferisce parlare appunto di «stile rappresentativo» anziché di «recitar cantando» come Cavalieri e si riserva di fare in altra occasione - verosimilmente quella delle Nuove musiche - «un discorso à i lettori del nobil modo di cantare ... con la nuova maniera de passaggi»; in conseguenza di che pare ragionevole assumere la prefazione alle Nuove musiche come «avvertimenti al lettore» per l'esecuzione dell'Euridice. Quanto detto non significa però che in quest'ultima egli faccia un uso così frequente di abbellimenti come nel suo libro di arie più famoso; già alla seconda scena, quella in cui Dafne Nunzia giunge ad annunciare la morte di Euridice (es. 5: 20k), il discorso si fa asciutto. Melismi ricompariranno più avanti, ma solo sporadicamente.

     Che cosa egli intenda poi nella premessa alle Nuove musiche dicendo di aver voluto «isfuggire quella antica maniera di passaggi che già si costumarono, più propria per gli strumenti di fiato e di corde che per le voci» e quindi, automaticamente, che cosa intendesse un anno prima anche per i passaggi dell'Euridice si ricava, meglio che dalle sue parole, dall'analisi delle arie. In «Amor io parto» (es. 6: 21k) i versi «Ben mi trafigge amore, ecc.», che scelgo per semplicità ed evidenza, sono ripetuti secondo uno schema comune ad altre arie, ma i «giri di voce» impiegati hanno ogni volta una connotazione diversa. E' però il caso di fare una considerazione più generale sull'uso di formule melodiche per rappresentare gli affetti in musica.

     L'impiego di melismi più o meno lunghi è antico come il canto ed ha due componenti: una emozionale ed una fonetica. La migliore descrizione che io conosca della prima è quella che già Agostino dava a proposito degli jubila 10:

«L'uomo che è fuori di sé dalla gioia non si serve più di vocaboli perché non ne trova nel suo vocabolario e nella sua mente; la sua voce allora erompe senza articolare parola e, mentre manifesta la gioia che gli tumultua dentro, fa vedere che non ci sono espressioni umane che la possano significare».

     Agostino parlava di gioia, ma, mutatis mutandis, il discorso può essere ripetuto identico per tutti gli affetti; compito del cantore è quello di leggere fra le note e le parole per dare ai melismi l'intonazione teatrale corretta. Dal punto di vista fonetico i melismi, gli abbellimenti, le diminuzioni, ecc. hanno invece il valore prosodico di accenti melodici di tipo verbale in quanto costituiscono una vera e propria modulazione in frequenza della nota o della sequenza di note alle quali sono sostituiti offrendo pertanto un'altra chiave di lettura del testo musicale.

     Tornando ad «Amor io parto», si tratta di capire dalla scrittura quale sia l'affetto rappresentato ed esprimerlo nel canto; quello individuato in una singola parola può poi magari diventare nota di regìa per tutta la frase. Conviene incominciare dalla seconda enunciazione del testo, nella quale la rappresentazione dell'affetto è più evidente. La «trafittura» corrispondente alla sillaba /tra/ è doppia in quanto il gruppo semicromacroma puntata che la esprime, sia pure in forma stilizzata, è ripetuto. Gli elementi melodici impiegati per intonare la parola «amore» sono poi una veloce esclamazione costituita dal gruppo croma puntata-semicroma sulle note re-do, che si trasforma in singhiozzi dolorosi, espressi dallo stesso ritmo lombardo usato per la «trafittura». E' come dire che, cantando per la seconda volta le parole «Ben mi trafigge amore», l'interprete ha certamente il compito di esprimere, sia pure secondo la sua personale sensibilità, pene d'amore. Il significato psicologico della prima enunciazione dei versi, quale risulta dall'incontro di parole e di note, è invece più ambiguo e, a seconda della sensibilità di chi li canta, può essere letto come passione, sensualità, ecc. o anche - perché no? - come rappresentazione delle gioie d'amore. La scelta sarà responsabilità artistica del cantante.

     Il discorso fatto per i melismi di Caccini vale anche per gli abbellimenti descritti da Alessandro Guidotti «groppolo», «monachina», «trillo» e «zimbelo» (es. 7: 15k) chiaramente notati nella musica di Cavalieri. L'analisi delle occasioni in cui compare la loro indicazione conferma anche per essi una funzione sia espressiva che fonetica: se, cioè, si osserva quali sono le parole sulle quali l'abbellimento è stato previsto e quale è quello scelto si constata che il discorso fatto per le diminuzioni di Caccini vale anche per gli abbellimenti di Cavalieri.

     L'esecuzione del recitativo, però, esattamente come l'actio teatrale non implicava soltanto una pronuntiatio di tipo oratorio più o meno ricca di passaggi, ma anche un'opportuna gestualità. Nell'epistola «Ai Lettori» Alessandro Guidotti chiede «che ... [il cantante] accompagni [le parole] con gesti, & motivi non solamente di mani, ma di passi ancora che sono molto efficaci à muovere l'affetto». Nel 1608 Marco da Gagliano sarà alquanto preciso nel descrivere la gestualità della sua Dafne 11 (o almeno quella del Prologo):

« ... esca il Prologo, cioè Ovidio, avvertendo d'accompagnare il passo al suono della sinfonia, non però con affettazione, come se ballasse, ma con gravità, di maniera tale ch'i passi non siano discordanti dal suono; arrivato al luogo dove gli par conveniente di dar principio, senz'altri passeggiamenti cominci; e sopra tutto il canto sia pieno di maiestà, più o meno secondo l'altezza del concerto gesteggiando, avvertendo però ch'ogni gesto e ogni passo caschi su la misura del suono e del canto; ... ».

     E' di poco posteriore 1616 il trattato di Giovanni Bonifacio 12 che descriverà minuziosamente la gestualità dell'epoca.

     Gli «Avvertimenti particolari per chi cantarà recitando: & per chi suonarà» di Alessandro Guidotti terminano con la spiegazione del segno di «incoronata» (.S.), «la qual serve per pigliar fiato, & dar'un poco di tempo à fare qualche motivo» (es. 7: 15k). Cavalieri fa uso dell'incoronata con frequenza incredibile; valga per tutti il monologo del Tempo dell'es. 1 (19k). Come appare dallo stesso esempio, le incoronate sono segnate con pari frequenza anche per il «Choro», coerentemente con quanto scritto negli «Avvertimenti per la presente Rappresentatione, à chi volesse farla recitar cantando»:

«Il Choro dovrà stare nel Palco parte à sedere, e parte in piedi, procurando sentir quello che si rappresenta, e tra di loro alle volte cambiar luoghi, & far motivi; & quando havranno da cantare, si levino in piedi per puoter fare li loro gesti, e poi ritonare à luoghi loro».

     Ciò che importa a noi è che questo segno è una vera e propria nota di regìa o, se si preferisce, un suggerimento al regista che dà senso alle innumerevoli pause ricorrenti nella partitura. Esso, inoltre, indica con precisione i luoghi in cui «dare varietà»:

«Il passar da uno affetto all'altro contrario, come dal mesto all'allegro, dal feroce al mite, e simili, commuove grandemente».

     Le pause musicali del recitativo hanno dunque il valore di pause teatrali. Peri e Caccini, pur non rinunciando a questo artificio, conducono il loro discorso in modo più oratoriale, con lunghe frasi musicali che ricalcano il discorso poetico.

     Tornando ad occuparci della rappresentazione degli affetti nelle tre prime opere in musica, prendiamo ora in esame le prefazioni delle due Euridici.

     Nella sua, Caccini anticipa ciò che tornerà poi ad esprimere nella più nota prefazione a Le Nuove musiche:

«Nella qual maniera di canto ho io usata una certa sprezzatura, che io ho stimato che abbia del nobile, parendomi con essa di essermi appressato quel più alla natural favella ... non avendo mai nelle mie musiche usato altr'arte che l'imitazione dé sentimenti delle parole, toccando quelle corde, più o meno affettuose, le quali ho giudicato più convenirsi per quella grazia che si ricerca per ben cantare».

     Aggiunge inoltre che «lo stile e la maniera» dell'Euridice è lo stesso «di tutte l'altre mie musiche che son fuori in penna, composte da me più di quindici anni sono in diversi tempi». «Sprezzatura» e «grazia» sono due tratti estetici, propri di Caccini, che ricompariranno nell'epistola «A i lettori» delle Nuove musiche:

«musiche di quella intera grazia ch'io sento nel mio animo risonare»

     e:

«mi venne pensiero introdurre una sorte di musica, per cui altri potesse quasi che in armonia favellare, usando in essa (come altre volte ho detto) una certa nobile sprezzatura di canto».

     Che cosa egli intenda per «sprezzatura» lo dirà poi soltanto nel 1614 ripubblicando le Nuove musiche:13

«La sprezzatura è quella leggiadria la quale si dà al canto co 'l trascorso di più crome e semicrome sopra diverse corde, co 'l quale, fatto a tempo, togliendosi al canto una certa terminata angustia e secchezza, si rende piacevole, licenzioso e arioso».

     Per il Peri, invece, i canoni estetici di riferimento sembrano essere «gravità» e «dolcezza» e nella Dedicatoria dice:
    

« ... il signor Ottavio Rinuccini, e nell'ordinar e nello spiegar sì nobile favola, adornandola tra mille grazie e mille vaghezze, con maravigliosa unione di quelle due che sì difficilmente si accompagnano: gravità e dolcezza, ha dimostrato d'esser'al par de' più famosi antichi, poeta in ogni parte mirabile».

     Nella «Prefazione», però, troviamo indicazioni più specifiche per l'interpretazione del suo recitativo, soprattutto se la si legge alla luce delle attuali conoscenze di fonetica prosodica; ma, dato che sto parlando a dei francesi, per rendere il mio discorso più chiaro è forse il caso che metta in evidenza alcune caratteristiche della prosodia italiana.

     Il periodo italiano è caratterizzato dalla presenza di più accenti, dei quali uno principale ed altri secondari. Di solito l'accento principale si trova sulla penultima sillaba della proposizione finale mentre quelli secondari - la struttura del periodo italiano è tendenzialmente ipotattica - si trovano nei luoghi opportuni delle proposizioni precedenti. Diversamente da quella italiana «la prosodia francese è caratterizzata da una tendenza a riunire le sillabe in gruppi relativamente lunghi; dei sintagmi come je les ai vus, nous sommes arrivés, veux tu me pardonner? normalmente hanno un solo accento e pertanto formano ciascuno un gruppo fonetico. [...] E' utile mettere a confronto le proposizioni les belles fleurs, , les fleurs rouges, ecc. del francese, con un solo accento su fleurs e su rouges, rispettivamente, e the nice flowers e the red flowers, rispettivamente con due accenti, uno sull'aggettivo e uno sul sostantivo ...» 14. Se si mettono le due proposizioni a confronto con la loro traduzione italiana, si osserva che questa ha un'accentuazione articolata su tre livelli di intensità, livelli che qui cerco di rappresentare in ordine crescente scrivendo le sillabe rispettivamente in carattere corsivo, corsivo-grassetto e corsivo-grassetto-sottolineato: i bei fiori e i fiori rossi. Il fatto è particolarmente importante perché la scrittura musicale del Peri è rivolta a riprodurre lo stesso tipo di accentuazione in musica.

     Altra componente fondamentale nel determinare il significato della frase parlata è l'intonazione prosodica. I tratti acustici che individuano l'intonazione prosodica del discorso sono fondamentalmente cinque e pare a me che essi possano essere legittimamente impiegati anche come griglia di lettura per l'analisi dell'intonazione musicale dei recitativi:

Dice dunque Peri sui criteri da lui seguiti per comporre l'Euridice:
    

« ... mi diedi tutto a ricercare l'imitazione che si debbe a questi poemi [degli antichi Greci e Romani]; e considerai che quella sorte di voce, che dagli antichi al cantare fu assegnata ... potesse in parte affrettarsi, e prender temperato corso tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quegli della favella spediti e veloci, et accomodarsi al proposito mio ... avvicinandosi all'altra del ragionare ... Conobbi, parimente, nel nostro parlare alcune voci intonarsi in guisa che vi si puo fondare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre molte che non si intuonano, finchè si ritorni ad altra capace di movimento di nuova consonanza. Et avuto riguardo a que' modi et a quegli accenti che nel dolerci, nel rallegrarci et in somiglianti cose ci servono, feci muovere il basso al tempo di quegli, or piu or meno, secondo gli affetti, e lo tenni fermo tra le false e tra le buone proporzioni, finchè, scorrendo per varie note, la voce di chi ragiona arrivasse a quello che nel parlare ordinario intonandosi, apre la via a nuovo concento». 16

     La lettura di queste parole e della partitura alla luce di acquisizioni fonetiche come quelle sopra riportate apre prospettive di ricerca, che in una comunicazione come questa possono essere soltanto accennate e che dovrebbero essere rivolte preliminarmente ai modi della recitazione in prosa. Mi limito a dire che, fondamentalmente, Peri riesce a contenere l'estensione delle melodie cantabili entro limiti confrontabili con quelli della melodia prosodica per mezzo di abili spostamenti di intonazione delle singole proposizioni all'interno del periodo nonché con l'uso accorto delle funzioni tonali per ottenere a volta a volta effetti di affermazione, di sospensione, di esclamazione, di interrogazione, ecc. Ne consegue che, dei recitativi delle tre prime opere in musica, il suo è quello che abbisogna maggiormente di una ricostruzione sapiente dell'accentuazione prosodica per ritrovarne la piena comprensibilità e, quindi, la godibilità ma che esso è anche quello a cui il termine «recitativo» si addice di più. Del resto già Pietro de' Bardi aveva detto:

«Il Peri aveva più scienza, e trovato modo con ricercar di poche corde, e con altra esatta diligenza, d'imitare il parlar familiare, acquistò gran fama. Giulio ebbe più leggiadria nelle sue invenzioni».17

     Cercando ora di concludere e tornando al mio interesse di musicista pratico, di cui dicevo all'inizio del discorso, mi pare che, allo stato attuale delle conoscenze, si possano individuare con relativa sicurezza soltanto poche caratteristiche fondamentali, distintive della prassi esecutiva delle tre opere:

     Per adesso, mancando - come manca - tutta questa ricerca preliminare, il musicista pratico non può fare altro che affidarsi alla propria intelligenza musicale e risolvere di battuta in battuta i problemi che ogni nota gli pone. E così dovrò fare io.

     Forse non sono arrivato a grandi risultati, ma come dicevo all'inizio, parlare del recitativo delle origini nei limiti di una comunicazione è come pretendere di dare brevi cenni sull'infinito.

Lavoro svolto nell'ambito del progetto di ricerca CNR 92.02434.CT15.

NOTE

     1 CAVALIERI, Emilio de', Rappresentatione di Anima, et di Corpo, Mutij, Roma, 1600 (ed. anastatica: Gregg, Farnborough, 1967).

     2 CAROSO, Marco Fabrizio, Nobiltà di Dame, Presso il Muschio, Venezia, 1600 (ed. anastatica: Forni, Bologna, 1997) p. 310.

     3 UBERTI, Mauro, Vocal techniques in Italy in second half of the 16th century, Early Music, London, October 1981, pp. 486-493.

     4 PERI, Jacopo, Le musiche di Jacopo Peri nobile fiorentino sopra l'Euridice del Sig. Ottavio Rinuccini, Marescotti, Firenze, 1699 (ed. anastatica: Forni, Bologna, 1979).

     5 CACCINI, Giulio, L'Euridice composta in musica in stile rappresentativo..., Marescotti, Firenze, 1600 (ed. anastatica: Forni, Bologna, 1968).

     6 TINGHI, Cesare, Diario delle feste medicee (1600-1637), ms, in TESTI, Flavio, La musica italiana nel Sekento. Il melodramma, Bramante, Milano, 1970, p. 91.

     7 MOMPELLIO, Federico, «Un certo ordine di procedere che non si può scrivere», in Scritti in onore di Luigi Ronga, Ricciardi, Milano-Napoli, 1973.

     8 Anche se di mezzo secolo prima, la dichiarazione più esplicita sulla connotazione espressiva dei passaggi è probabilmente quella del Vicentino: «sono alcuni cantanti che agli oditori dimostrano il suo poco giudizio et poca considerazione quando cantano, et che ritrovano un passaggio mesto lo cantano allegro et poi per il contrario quando il passaggio è allegro lo cantano mesto» (in VICENTINO, Nicola, L'Antica musica ridotta alla moderna prattica, Barre, Roma, 1555 [ed. anastatica: Bärenreiter, Kassel, 1959], lib. IV, cap. XXXXII, f. 94r, segnato per errore come f. 88.)

     9 CACCINI, Giulio, Le Nuove Musiche di Giulio Caccini detto Romano, Marescotti, Firenze, 1601 (ed. anastatica: VATIELLI, Francesco, a cura di, Reale Accademia d'ltalia, Roma, 1934).

     10 AGOSTINOAURELIO, Commento ai salmi 99 e 32, in PASSALACQUA, Cosma, Biografia del Gregoriano, Nuova Accademia Editrice, Milano, 1963, p. 54.

     11 GAGLIANO, Marco da, La Dafne, Christofano Marescotti, Firenze, 1608, in SOLERTI, Angelo, Le origini del melodramma, Bocca, Torino, 1903 (ed. anastatica: Forni, Bologna, 1969), p.76.

     12 BONIFACIO, Giovanni, L'Arte de' cenni, con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza, che non è altro che un facondo silenzio, Grossi, Vicenza, 1616.

     13 CACCINI, Giulio, Nuove Musiche e Nuova Maniera di scriverle, con due arie particolari per Tenore che ricerchi le corde del Basso, nelle quali si dimostra che da tal Maniera di scrivere con la pratica di essa si possano apprendere tutte le squisitezze di quest'Arte senza necessità del Canto dell'Autore; adornate di Passaggi, Trilli, Gruppi e nuovi affetti per vero esercizio di qualunque voglia professare di cantar solo, Pignoni, Firenze, 1614 (ed. anastatica: SPES, Firenze).

     14 MALMBERG, Bertil, Manuale di fonetica generale, Il Mulino, Bologna, 1977 (ediz. originale: Manuel de fonétique générale, Picard, Paris, 1974), p. 80.

     15 CARTON, Fernand, Introduction à la phonétique du français, Bordas, Paris, 1974, p. 92.

     16 Op. cit., Epistola «A Lettori».

     17BARDI Conte di Vernio, Pietro de', Lettera a G B. Doni sull'origine del melodramma (1634), in SOLERTI, Angelo, Le origini del melodramma, Bocca, Torino, 1903 (ed. anastatica: Forni, Bologna, 1969), p. 146.